Vivere all'estero

Il Giappone si scopre un po’ socialista

Written by Veronica Marocco

Oggi vi parlerò di un lato inaspettato del Giappone: ovvero quando il Giappone si scopre un po’ socialista.Poi uno dice: il Giappone, il capitalismo sfrenato, le compagnie con millemila impiegati, la gerarchia, la disciplina, il “chi si ferma è perduto”. L’idea che a volte abbiamo, quando guardiamo a questo paese, è quella di un’economia frenetica, nonostante le recenti crisi.

Insomma… no. O almeno, a noi così non sembra.

Mio marito lavora in un ambito molto internazionale ed ha un lavoro che sarebbe stressante anche se fosse basato in un resort alle Maldive. Io lavoro per una compagnia francese e accolgo turisti da tutto il mondo, ma soprattutto europei. Mi baso dunque su alcune fonti preziose: le mie conoscenze giapponesi, e le testimonianze di amici che hanno lavorato, o lavorano, in compagnie giapponesi o con colleghi a maggioranza nipponica. Mettiamoci poi un pochino del mio spirito di osservazione.

Una domanda che molti viaggiatori fanno dopo qualche giorno a Tokyo è: “ma che lavori fanno? ma c’è un impiegato per qualsiasi cosa?. In effetti, il tasso di disoccupazione è bassissimo, intorno al 3%. Se volete saperne di più a riguardo, leggete questo articolo del Guardian sul tasso di disoccupazione.

Questa occupazione apparentemente da sogno è in realtà regolata da alcune leggi non scritte che a me ricordano un pochino alcuni usi e costumi di quei Paesi sovietici che studiavo all’Università.

Molte donne scelgono ancora oggi di rimanere a casa: perché lavorare, una volta sposate e soprattutto con prole, se il marito ha uno stipendio che ci permette di non farlo? E questo libera automaticamente dei posti di lavoro, per donne piu’ giovani o uomini. Parecchie persone inoltre lavorano col cosiddetto “baito”, cioè il lavoro part-time (dal tedesco “arbeit”, mentre il lavoro full-time e’ “shigoto”), o comunque pagato ad ore, che ovviamente costa molto di meno alla compagnia, e allo stato giapponese, in termini di contributi e previdenza sociale.
La tendenza è comunque sempre la stessa: trovare un lavoro per tutti, per tutte le capacità e tutte le tasche.
Via libera dunque a cinque diversi operai con torcia per segnalare i lavori in corso (mentre altri dieci eseguono effettivamente questi lavori), l’omino in metropolitana con tanto di uniforme che ripete meccanicamente “Attenzione a non scivolare” di fronte a dei piccoli rifacimenti del pavimento (ovviamente già opportunamente segnalato da barriere e cartelli), gli innumerevoli “uomini sandwich”, gli studenti che danno volantini e regalano fazzoletti, l’esercito di nonni e nonne vigili: insomma, la sensazione, ad ogni ufficio, negozio, konbini (“convenience store”) o incrocio è quella che siano state prese tre o quattro persone a fare il lavoro che da noi farebbe un impiegato, o magari neanche quello.

Fattore competitività: il contrario di quello che si può immaginare, insomma… bassina.
Emergere dal gruppo, lottare per essere il migliore, o semplicemente pensare “fuori dalla scatola” non sono qualità molto ben viste, neppure a scuola.
Il tasso di bocciature è vicino allo 0%, e anche se via via verso gli esami di ammissione all’università lo studio si fa matto e disperatissimo (compensato da asili e elementari dove i bimbi sono coccolatissimi) e le classifiche di voti diventano di dominio pubblico (e il rischio suicidi si innalza), la questione rimane sempre piuttosto un problema di onore, di ammirazione, di vergogna nel caso si falliscano gli esami; è più una volontà di essere primo fine a se stessa, al proprio onore e alla gioia che porta alla propria famiglia, un’assicurazione per il futuro nel caso si riesca ad entrare in una facoltà prestigiosa, piuttosto che prevaricazione sull’altro. In ufficio poi, neppure a parlarne. Il capo è una sorta di genitore al quale si può chiedere qualsiasi cosa, e a volte sembra messo lì per risolvere i problemi e rendere la vita più semplice alle “formichine” piuttosto che a fare il suo lavoro specifico supervisionando e solo coordinando quello degli impiegati.

Last but not least, il supermercato.
Eh si, dove si vede maggiormente questo amore per la collettività, questo tendere al supremo bene sociale? Me ne sono resa conto la prima volta che ho cercato di comprare due panetti di burro. Sono stata stoppata alla cassa e a nulla sono valsi i miei tentativi di corruzione, chiedendo se fosse possibile fare due conti separati (ehm, vergogna su di me).
Perché? Perché il Giappone è un’isola, e certe volte succede che alcuni prodotti siano un po’ più rari. Burro e prodotti caseari soprattutto (una piccola produzione in Hokkaido, e per il resto importati, ma strettamente regolati da norme ferree), ma a volte anche altri prodotti prodotti in Giappone.
C’è poco burro dunque? si raziona! Dunque non più di un panetto a famiglia, non più di un pezzo alla volta.

E’ facile dunque avere idee precostituite prima di arrivare in un nuovo posto… e a voi è capitato? avete “scardinato” qualche convinzione una volta arrivati nel paese di accoglienza?

Veronica, Giappone

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Author

Veronica Marocco

Amante dei viaggi e dei libri, con la mia laurea in Lingue e il mio lavoro in hotel, quando pensavo alla possibilita' di partire dall"Italia la mia immaginazione si fermava a Londra...e invece dopo due anni in Francia, nel 2011 scendo dalla scaletta di un aereo che mi porta dritta a Hong Kong, per quasi quattro anni. Nel 2014 la seconda tappa del tour asiatico: Tokyo, immensa, calma e caotica al tempo stesso. Dopo due anni nella megalopoli giapponese, nuova destinazione è Taipei, capitale dell'isola di Taiwan, che rimarrà nei nostri cuori: qui è nata Beatrice, la nostra bambina. Nel 2019 siamo arrivati a Shanghai, per poi tornare in Europa, in Francia, nell'estate del 2020. Per l'inizio del 2022, quando ormai credevo sarei rimasta europea, e dopo essere diventati quattro, accogliendo Francesco (nato a Nizza), un nuovo biglietto aereo diceva Doha, Qatar. Un bel giro del mondo del quale proverò a raccontare.

4 Comments

  • Stupendo articolo, mi ha fatto ricordare le mie brevi permanenze a Tokyo dove ho notato tutte queste cose.

    Ricordo una volta quando facevo la stagista sfigata che sono andata ad un meeting importante con una Romana verace. Prendiamo l’ascensore e c’e’ l’omino il cui lavoro e’ quello di schiacciare i pulsanti e di fare conversazione sul tempo. Entriamo e l’omino dice qualcosa tipo “Eh oggi piove”, al che io rispondo “Si piove”.
    La mia capa Romana inizia a chiedermi “che ha detto?”
    E io “Ha detto che piove”
    Lei “Ma che e’, scemo? Non lo vediamo da soli?”
    Io “No, credo fare small talk sia il suo lavoro”
    Lei “Ma che cazzo di lavoro e’?”
    E da li la tipa ha preso a ridere in modo incontrollato per due ore. Fortuna che l’omino non capiva (spero)

    • Ciao Giupy, ecco, si’ diciamo che quella e’ proprio la sensazione… noi scherzando diciamo che “ora comib=ncia la stagione del atsui desu neeee” o del “samui desu neee” 🙂 Veronica

  • Articolo veramente interessante. In particolare l’esperienza del burro (e in generale del razionare ciò di cui si ha poca disponibilità). Mi piace molto anche l’idea di sfidare se stessi e non gli altri. del resto, sono proprio i Giapponesi i principali sponsor del Kaizen (miglioramento continuo).
    Grazie della condivisione!

    • Grazie a te Stefano! In effetti ora mi sembra tutto cosi’ normale, ma all’inizio…

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