#expatimbruttito

Chi li capisce è bravo – e quella non sono io!

Written by Veronica Marocco

Lo ammetto, sono snob. Per un attimo, una frazione di secondo, quando sento qualcuno dire, lamentandosi, che “a Parigi proprio non mi trovo”, o a Londra “che shock culturale!”, per un solo minuscolo attimo dentro di me penso “Uhm, si certo, che dramma. A Parigi. Come no, che vita durissima”. Poi ritorno in me, perché ‘lontano’ e difficile’ sono due concetti molto spesso non univoci, e perché non esistono problemi più o meno gravi, ma solo il peso che hanno sulle nostre spalle. Paragonarsi agli altri non serve a nulla, figuriamoci in espatrio, dove fare rete e aiutarsi a vicenda dovrebbero essere all’ordine del giorno, non fare a gara a chi trova le zucchine più care o gli idraulici meno simpatici.

Lo ammetto, da quando vivo in Asia (passando per Hong Kong, Tokyo e Taipei) sono un’europeista convinta. Mi mancano la cultura, il modo di discutere apertamente di ogni cosa, da pari a pari, con tutti, mi manca lo sguardo sulle cose. Mi manca non dover cambiare i soldi ad ogni viaggio e non dover per forza avere il passaporto con sé. Mi manca poter prendere un aereo domani mattina, prenotandolo ora, senza pensare “ma ci vorrà il visto? fammi controllare il sito della loro Ambasciata”.

Ma soprattutto, mi manca capire dove sono. Capire cosa succede. 

Perché anche una persona con poca inclinazione e dimestichezza con le lingue può imparare, magari non perfettamente, l’inglese, il francese, lo spagnolo. E potrà certamente, rimanendo qualche anno nel paese, capire un telegiornale, o leggere la carta stampata. Capire le semplici scritte in strada, un manifesto pubblicitario.

Le lingue asiatiche (Cinese su tutti) richiedono anni di pratica, uno studio rigoroso e intenso, un esercizio di memoria molto importante.

Quando vivevo a Tokyo ero andata a scuola di Giapponese, ed ero riuscita a raggiungere un livello base, che mi permetteva di andare al supermercato o alla posta, chiedere indicazioni stradali e via dicendo. Qui a Taipei non ho avuto il tempo materiale per studiare – e in questo momento, sono sincera, mi manca la voglia.

In generale, ovunque abbia vissuto, nonostante abbia incontrato popoli gentili ed accoglienti, abbia trovato amici e colleghi, non posso dire di essermi davvero integrata. In qualche modo mi sono sempre sentita un po’ tagliata fuori, come se la vita vera mi scorresse accanto ed io fossi dentro un acquario. La vita vera era quella a casa, quella che capivo, di cui possedevo tutti gli strumenti di interpretazione, ma anche quella local, quella degli avvenimenti politici e sociali della città e del paese che in quel momento mi stava ospitando.

Pensateci: in un paese come il Giappone, ad esempio, io potevo informarmi sull’andamento dell’economia o della politica su giornali italiani, francesi, in lingua inglese, ma non potevo leggere un quotidiano locale. In questo modo, ero sempre un po’ come in differita. Stessa cosa qui a Taipei (a Hong Kong grazie al South China Morning Post andava meglio!), dove c’è comunque una situazione internazionale abbastanza calda (e tutti i nomi di questa isola ce lo spiegano bene) e dove mi piacerebbe essere aggiornata, ma a meno di non incorrere nella clemenza di qualche collega del marito o qualche conoscenza taiwanese, non é per nulla facile.

I miei esempi riguardano tutti l’attualità, ma potrei farne altri, in altri campi. E voi?

Vi sentite a vostro agio nel paese di accoglienza? capite quello che succede intorno a voi? insomma, siete engaged come piacerebbe esserlo a me?

Veronica, Taipei

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Author

Veronica Marocco

Amante dei viaggi e dei libri, con la mia laurea in Lingue e il mio lavoro in hotel, quando pensavo alla possibilita' di partire dall"Italia la mia immaginazione si fermava a Londra...e invece dopo due anni in Francia, nel 2011 scendo dalla scaletta di un aereo che mi porta dritta a Hong Kong, per quasi quattro anni. Nel 2014 la seconda tappa del tour asiatico: Tokyo, immensa, calma e caotica al tempo stesso. Dopo due anni nella megalopoli giapponese, nuova destinazione è Taipei, capitale dell'isola di Taiwan, che rimarrà nei nostri cuori: qui è nata Beatrice, la nostra bambina. Nel 2019 siamo arrivati a Shanghai, per poi tornare in Europa, in Francia, nell'estate del 2020. Per l'inizio del 2022, quando ormai credevo sarei rimasta europea, e dopo essere diventati quattro, accogliendo Francesco (nato a Nizza), un nuovo biglietto aereo diceva Doha, Qatar. Un bel giro del mondo del quale proverò a raccontare.

6 Comments

  • Alla frase:
    “Lo ammetto, da quando vivo in Asia (passando per Hong Kong, Tokyo e Taipei) sono un’europeista convinta. Mi mancano la cultura, il modo di discutere apertamente di ogni cosa, da pari a pari, con tutti, mi manca lo sguardo sulle cose.”
    ho sentito l’istinto di tirare fuori le bandierine blu con le stelline ed iniziare a sventolarle alla mia scrivania di Osaka, come in un film patriottico americano. Io, che un paio d’anni fa avrei infilato l’aggettivo “patriottico” tra i quasi-insulti-o-almeno-parole-da-guardare-un-po’-storto.

    Ci ho messo 8 mesi buoni per non sentirmi come un alieno appena sbarcato in Giappone, anche se già dalle prime settimane mi era parso chiaro che la capacità di capire il contesto in cui mi trovavo non poteva più passare dal linguaggio. Mi è parso lampante nel momento in cui ho comprato una bicicletta di seconda mano in una specie di garage marcio, da un vecchino che non parlava neanche una parola d’inglese, senza usare parole. Facendo pure la registrazione ufficiale del mezzo al ward office. 1-0 per la comunicazione non verbale.

    Ho passato mesi a lavorare meno di quanto volessi perché ogni mattina arrivavo in ufficio e la mia testa era piena di “come si fa questo in Giappone?” “perché i giapponesi fanno questo?” “perché mi domandano sempre quello?” “cosa pensano delle donne nell’accademia (ovvero, evitano come la peste me perché sono io e faccio qualche errore, o perché sono una donna straniera)?” e ogni giorno, mille perché e percome. Che soddisfavo assorbendo più informazioni possibili da forum, blog di altri expat, dalle notizie di News on Japan e del Japan Times (che sì, ha l’edizione in inglese, ma ogni notizia è molto ridotta. Un po’ in formato notiziario per bambini, ma con più dettagli spatter e macabri, come piace qui).
    Per mesi ho stretto i denti, prima in modo figurato, poi in modo che era tempo di farsi fare un bite per dormire. Stringevo i denti per tenere tutto insieme, mostrare che ero in grado di lavorare nonostante l’ambiente ostile, risolvere le praticità quotidiane, far assomigliare la mia casa ad una casa, capire come installare la messa a tessa del microonde nuovo, trovare un ortopedico che parlasse inglese, aggiustare la tua relazione dalla fase convivenza alla fase 16.000km e 8 ore tra noi, rassicurare amici e parenti su Skype – che tutti si aspettano tu dica “che figaaaata vivere in Giappone, è il posto più bello del mondo e io non sono mai stata meglio” altrimenti non possono stare tranquilli per te. Altrimenti sembra sia colpa tua se li fai stare in pensiero.

    Solo quando ho dato il giro di boa del primo anno, iniziando a riconoscere dettagli socio-stagionali che hanno popolato le immagini dei miei primi mesi qui, ho iniziato a sentirmi un po’ più parte di questo posto. Un po’ più ingranata, con un po’ più di comprensione. E con una rete di conoscenze, amicizie ed abitudini costruite dal nulla, dalla solitudine più assoluta, che a osservarla quasi mi commuove.

    Resta la consapevolezza che in questo paese sarò sempre diversa. Mi si guarderà fisso sulla metro, si cercherà di farmi foto neanche tanto di nascosto (eh, Osaka, fuori dal centro non è tanto abituata agli stranieri), si lascerà libero il sedile accanto a me chenonsisamai. Mi si elogerà per le abilità linguistiche ogni volta che dirò “ciao” in giapponese. Dovrò rispondere almeno una volta alla settimana al “ma mangi il sushi?”. Sorridere alle conversazioni che invariabilmente iniziano con “Quando riparti?”(“eehh…non lo so, lavoro qui” “Eeeee! Sugoiiii”). Però in qualche modo, sento che è un po’ casa. Inizio a provare affetto per il mio quartiere nonostante la sua estetica bruttezza. La signora del kombini mi dice “da quanto tempo!” quando non ci vado da un po’, e mi fa sentire una di qua. Provo gioia infantile quando vedo comparire tutto a tema castagne a ottobre, i kaki a novembre, i dolci alle fragole a dicembre, e le bibite a tema mensile nelle macchinette automatiche.

    E allo stesso tempo, so che questo posto va bene per un po’, ma che quando verrà il momento di trovare una patria “definitiva” vorrei fosse in Europa. Da lontano, tornare a vivere in Francia, o in Italia, o in un paese europeo in cui ancora non ho vissuto, sembrano ipotesi con differenze di minore importanza.

    • Ti capisco Celeste, anche io in pochi anni sono passata da “e che sarà mai l’Europa” al sentirmi inevitabilmente e orgogliosamente europea. Ed è bastato mettere piede poco al di fuori di essa (Regno Unito) per capire che l’Europa esiste davvero.

  • Bellissimo post, Veronica. Ti dirò che la cosa che soffro di più di Londra non sono due zucchine a un pound e mezzo, ma proprio la sensazione di non essere in Europa. Perché parliamoci chiaro, non è colpa di Brexit ma gli inglesi non sono esattamente europei. E per quanto questa città sia multiculturale e di mentalità molto vicina all’Europa, ho percepito una differenza che non ho percepito quando mi sono trasferita in Francia: e forse la cosa più dolorosa è che è una differenza così piccola che mese dopo mese si sta trasformando in voragine…

  • Come Veronica e Celeste anche io, nel mio terzo e passa anno di residenza a Tokyo, non posso che confermare gli innumerevoli muri che si devono valicare in culture lontanissime da quelle europee, come quelle asiatiche.
    Nonostante mi reputi abbastanza fluente, lavoro unicamente con giapponese tecnico e abbia un compagno giapponese, le difficoltà sono ancora tante. Quella più evidente, la lingua. E non tanto nel parlarla (dopo qualche anno si diventa anche decentemente fluenti) ma quello della lettura/scrittura è sicuramente quello più frustante. Anche dopo 10 anni o 20 immagino che ci saranno sempre tanti vocaboli che non si saprà leggere , o nomi di qualcuno di qui non si abbia la più pallida di come si pronuncino. Nella quotidianità questo porta un enorme carico e stanchezza mentale. Vivere in paesi anglofoni o per lo meno dove il francese o il tedesco o lo spagnolo siano la lingua madre porta l’esperienza expat a livelli decisamente più piacevoli.
    Poi c’è tutto quello che noi ,da europei, diamo per scontato, primo su tutti: la libertà di espressione, al 100%. Vuoi forse insinuare che il Giappone sia un paese dov’è vietata la libertà d’espressione? Se si intende che si commette un reato, ovviamente, no certo. Ma se si vuole imparare a convivere serenamente in questa società è necessario contare fino a 200 prima di dire la propria, soprattutto se si tratta di opinioni che sicuramente cozzeranno con il senso comune locale.
    Non esiste la discussione per come la intendiamo noi. Io penso A, tu pensi B, si parla, si discute, si litiga anche, e tutto torna come prima. Io con i miei pensieri B e tu con i tuoi pensieri A.
    Invece in Giappone si scoraggia qualsiasi discussione o confronto. Qui si pensa A e tu devi pensare A, e non si pone proprio il problema di dire, “Si ma forse B non sarebbe una buona alternativa?”. Perchè vuoi essere polemico? Perchè ti devi distinguere dalla massa? Non si sprona il confronto a scuola, nelle relazioni di coppia e soprattutto al lavoro.
    Ricordo ancora quando in una lezione a scuola di Giapponese l’insegnante mi chiese di fare un esempio con la parola “erai”, l’equivalente del nostro essere in gamba, bravo. Allora io dissi che molti giapponesi mi dicevano “erai” per aver lasciato a 30 anni il mio paese e il mio lavoro ed essermene andata da sola dall’altra parte del mondo, in Giappone, a cercare lavoro. “Quello non è erai. Fai un esempio pertitente”.
    Gelai. Mi venne una rabbia nel vedere l’indisponenza di quella donna di mezz’età giudicare cosa è o non è degno di essere definito”essare in gamba”.
    “E perchè non è pertinente?” nel silenzio totale delle classe composta da compagni tutti asiatici, dove il replicare all’insegnate è considerato un azzardo.
    “Mica hai fatto niente di che. Sai quanti ce ne sono come te. Forse nel tuo paese lo è , fai un esempio che tutti possono capire.” senza alzare la voce, così calma.
    “Ad aver usato questa parola in questo contesto, sono proprio i suoi connazionali. Se mi chiede di fare un esempio io lo faccio sulla base della persona che sono, con le mie esperienze e la mia cultura. Se questo non è in linea con i suoi di principi farebbe meglio a rispondersi da sola, sicuramente non sbaglierebbe.” Chiesi permesso e uscii fuori dalla classe, liberandomi con un “ma vaff….” che nessuno comunque poteva capire. Chiesi alla segreteria di cambiarmi insegnante perchè era solità fare commenti razzisti oppure avrei cambiato scuola. Me la cambiarono.
    Questo è un esempio estremo ovviamente, e da allora ho imparato a convivere in maniera più furba con situazioni del genere. Meglio la parola non detta.

    Mi sono dilungata tanto , e mi scuso, ma mi sento in completa sintonia con il post di Veronica e Celeste. Non si tratta di snobbismo, ogni esperienza all’estero si sa è difficile, chi più chi meno. Ma è giusto parlare anche delle difficoltà aggiungitive per chi si trova a vivere in paesi culturalmente molto lontani dal nostro. Perchè chi legge questo sito è anche chi magari sta valutanto il proprio futuro fuori dal suolo italiano.

    • Sei molto erai, altroché! 🙂

      Rispetto alle differenze culturali per cui iniziativa=male, lavorando in un gruppo di ricerca di solo uomini e solo giapponesi, mi sono rassegnata ad essere odiata da tutti, non ce l’ho fatta ad adeguarmi.Non dissentire, non fare domande ai seminari e soprattutto non prima dei professoroni, non turbare la quiete con osservazioni, non proporre progetti ma aspettare che il mio superiore me li imbocchi, non collaborare con terzi senza chiedere il permesso al mio superiore…Preferisco l’ostilità aperta.
      Meno male che fuori dal lavoro me la passo decisamente meglio!

  • Care tutte, scusate per il ritardo nel rispondere ai vostri commenti. Chi piu chi meno avete tutte riassunto perfettamente quella sensazione di esclusione sottile (a volte neppure troppo) che ti pervade quando risiedi in questi paesi: anche quando sei accolto con gentilezza, anche quando abiti in paesi più che civili ed organizzati, accoglienti, anche quando sei inserito in una realta lavorativa, hai famiglia, vivi la vita quotidiana del paese che ti ospita. Sei sempre indietro, a lato, fuori tempo.
    Buon Natale e grazie infinite per i vostri commenti cosi lunghi, articolati, mi sento meno sola :-)))

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