Se esistesse il bingo dell’empatia e se contassi quante volte al giorno sento qualcuno che si definisce “molto empatico”, vincerei tutti i giorni!
L’empatia è la qualità che in assoluto sento le persone attribuirsi più spesso.
E se ci si pensa un attimo non è molto diverso dall’auto-definirsi come “molto intelligenti”, è raro che qualcuno si autoproclami tale senza remore, ma per l’empatia pare funzionare diversamente.
Io penso, invece, che sia estremamente complesso essere empatici, e per questo mi sorprende tantissimo chi si auto ricama questi gradi sulla giubba.
Provo a definirvi cosa è l’empatia, semplicemente per riferirci ad un linguaggio comune.
Premetto, doverosamente, che la descrizione che vi farò non deriva da un mio personale sentire, ma dallo studio di molti ricercatori che in modo interdisciplinare hanno esplorato e declinato l’empatia in modo molto approfondito*.
L’ empatia è una pratica intenzionale non spontanea.
Il nostro cervello si nutre di categorie e bias per funzionare, schemi interpretativi che ci sono stati “installati” dalla vita, sintesi continue di esperienza e apprendimenti.
Mettersi nei panni degli altri, implica l’atto consapevole ed intenzionale di liberarsi di queste categorie: non si può entrare nei panni degli altri con i propri.
Sintonizzarsi sulle corde narrative ed emozionali altrui è opera complessa. Significa non sostituirsi mai all’altro nella sua narrazione, scambiando la sua storia con la nostra, risucchiati magari da triggers emozionali che inevitabilmente situazioni altrui scatenano in noi.
Rimanere connessi in questo spazio sacro con gli altri è estremamente faticoso.
Anche perché, per natura, tendiamo spesso a buttarci anzitempo in strade laterali, fatte di consigli e soluzioni. Uscendo così fuori dalla via maestra dell’empatia, cercando così facendo di alleviare un dolore che è primariamente il nostro.
Stare nei panni degli altri può far male, ci può coinvolgere troppo. Ci può ricordare nostri mondi emozionali non risolti. Altre volte ancora ci può far sentire impotenti, stritolati, nell’ urgenza di risolvere.
Rimanere in equilibrio nella storia dell’altro è da funamboli.
L’empatia è l’accogliere la storia di un’altra persona come tale, senza distorsioni.
E anche se la storia pare somigliare alla nostra e ci sembra di vederci rispecchiata la nostra faccia dentro, la storia di un altro non è uno specchio, ma una finestra dove guardare curiosi.
Non so se sto riuscendo a rendere l’idea del perché penso che l’empatia sia affar complesso e non si può davvero avere questa diffusa e comune pretesa di attribuirsela.
Spesso scambiamo l’empatia per sensibilità interpersonale, la genuina volontà di comprendere gli altri che però non coincide necessariamente con il riuscirci.
Alzi la mano chi almeno una volta si è sentito frainteso. Semplicemente non ascoltato veramente, sopraffatto da aneddoti altrui, inondato da consigli mai richiesti. I tipici “fai così” e “se fossi in te”.
Vedo molte mani alzate! E noi expat ne sappiamo qualcosa…
Nel mio lavoro ascolto tante storie, sono ormai letteralmente migliaia le ore dedicate all’ ascolto dei miei clienti, ascolto fatto di presenza e maieutica, non di direzionamento.
E so bene che nel momento in cui mi porto a casa le storie dei miei clienti sto indebolendo enormemente la possibilità di esserci veramente per loro. Per essere empatici è importante scordarsi della propria storia, non ritrovarla in quella degli altri.
Coinvolgimento non è empatia. Presenza totale, domande ed ascolto sono gli ingredienti della empatia.
Vi è una gravità diversa in una storia altrui e ci vuole tanta consapevolezza per entrarci.
L’unica via è lasciare i propri panni a casa…
Monica, Italia
*Mi riferisco agli studi di Brene Brown, Marshall Goldsmith, Goleman, Lisa Feldman Barrett, Christine Nerff, David Eagleman e tanti altri ancora.
carissima,certo a livello professionale dovendo aiutare gli altri, è necessario quasi avere un distacco emotivo ,ma aldilà di questi casi specifici l’empatia è presente in molte persone,gli studi recenti della dottoressa Elaine Aron negli anni 90 hanno portato alla classificazione del tratto PAS ,un aspetto della personalità presente in persone con un alto grado di empatia,ed io sono tra queste e non è cosa sempre piacevole avvertire le emozioni altrui..porta un grande disagio emotivo e per me in passato la sofferenza nello stare in mezza molte persone per il fatto di ricevere molti stimoli,cosa poi confermata a livello neuronale,per cui sì forse alcuni usano troppo questo termine ,ma l’empatia esiste e gestirla nella tipologia di persone di cui sopra,ti assicuro è veramente difficile perché causa tachicardia aritmie e malessere.
Grazie del post,un abbraccio
Cara Gabriella,
conosco gli studi del dr Aron sui soggetti HSP (Highly Sensitive Person) sono gli stessi a cui ti riferisci tu?
Da come ti descrivi con tratti di estrema sensibilità e coinvolgimento nelle storie altrui forse ci riferiamo forse agli stessi studi
Si avverte molto dalle tue parole la tua sofferenza nella descrizione di come ti senti nell’avvertire tutti questi stimoli fino a somatizzazioni fisiche
L’empatia esiste eccome, non ho alcun dubbio a riguardo
🙂