Espatrio

Vivere in una bolla

Written by Diletta Texas

Quando ero piccola, ma in realtà fino a grande, ho sempre pensato di vivere in una grande città.

“Bari ha l’aeroporto, quindi è grande”. Mi dicevo così, tronfia e ovviamente inconscia che la mia città non fosse altro che un paesone vestito da città. 

È solo quando ho attraversato l’oceano Atlantico che ho capito cosa volesse dire vivere in una metropoli, con milioni e milioni di abitanti, dove puoi guidare anche per ore e la città chiamarsi ancora Caracas, Rio de Janeiro, Parigi, Houston. 

Vivere in una grande città vuol dire tante cose, ma soprattutto vuol dire vivere in una parte di città, quella che a noi expat consegnano per lavorare, andare a scuola, andare a bere un caffè, vivere. 

Poi ci sono le altre parti, le altre storie, le altre situazioni, dove, se ti va bene, sfiori il contesto, ma che mai, con tutta la buona volontà, entreranno nel tuo mondo, perché questo nostro mondo è grande, pieno di bolle e spesso, se non hai delle opportunità o se non sei curioso, da quella bolla non esci mai e delle altre realtà non saprai mai nulla. 

Ricordo sempre con molta nostalgia la mia vita in Africa, a Malabo. 

Ero molto giovane, non avevamo figli e scegliemmo di evitare di vivere in un compound per integrarci nel contesto urbano locale. La nostra casa era molto modesta, aveva il pavimento storto, il generatore per la corrente ed una riserva di acqua posizionata nel giardino. 

Avevo così l’illusione di sentirmi integrata, ma, ripeto, ero giovane e ingenua. 

Spesso i cinque figli del nostro guardiano, Gaspar, venivano a lavarsi da noi, perché casa mia era più comoda del fiume. Io li guardavo lanciarsi l’acqua addosso con un fare straordinariamente felice. Preparavo sempre qualcosa di buono da offrirgli, ma in casa mia loro non sono potuti entrare mai. Gaspar diceva che non avevano le scarpe e che mi avrebbero sporcato il pavimento. A me non importava, ma a loro sì. Quindi, intirizziti dall’acqua, ma con dei sorrisi a duecento denti, ritiravano il loro bottino di polpette, biscotti e cotolette e lo portavano a casa, perché “le cose buone si dividono anche con la mamma”. Dicevano proprio così. 

Nella mia bolla venezuelana avevo una casa con un numero imbarazzante di bagni. La prima volta che mio figlio è tornato in Italia dal Venezuela, a tre anni, ha chiesto alla nonna se fosse povera.  Mia madre, interdetta dalla domanda e non capendo dove il nipote volesse andare a parare, gli disse: “No, non siamo ricchi, ma neanche poveri”. Incalzando, il bambino riportava la questione sul numero dei bagni a disposizione e non si capacitava di come la mamma (cioè io) avesse potuto convivere una vita in quella casa in quattro, anzi cinque, facendo i turni la mattina. 

A Rio de Janeiro le cose non sono molto cambiate, perché Rio è una bolla stupenda, ma anche tanto insidiosa. Alle spalle della zona più bella, zona Sur, quella per intenderci di Ipanema e Leblon, c’è la fatica vera dei brasiliani. Ci sono bus che portano le persone dalle loro case al lavoro e spesso i tragitti durano anche due ore, al caldo, senza aria condizionata. 

Una volta siamo andati a pranzo dalla nostra babysitter in una favela vicino l’aeroporto. Lei, la nostra preziosa Telma, aveva una casa molto dignitosa, essenziale nel vero senso della parola. Il nostro pranzo ancora lo ricordo: zuppa di gamberetti con coriandolo e latte di cocco. Fu consumato per terra, perché non aveva ancora le sedie e un tavolo. Però, la sua piccola libreria la ricordo bene. Io le insegnavo l’italiano, lei spendeva i suoi soldi per i libri. Diceva che erano più importanti delle sedie. 

Parigi è una bolla elegante, o almeno lo è per tanti. Anche a Parigi, però, le bolle sono tante. Anzi, paradossalmente, a me hanno fatto anche più impressione perché ero erroneamente convinta che in Europa il livello sociale e culturale fosse più omogeneo. Quanto mi sbagliavo! La vera integrazione dei paesi africani francofoni non si è mai davvero consumata, relegata nella cintura dei sobborghi parigini, le cosiddette banlieue. 

Ho fatto molta fatica a crescere i miei figli migrando tra bolle di culture diverse, ma sempre privilegiate. È stato complicato spiegare ai bimbi che tutto quello che abbiamo avuto non è la normalità, che esistono tante realtà diverse dalla nostra, che noi abbiamo avuto solo una occasione in più per capire che esistono, sempre dal balcone del nostro privilegio. 

Perdere la bussola navigando tra varie realtà è un rischio abbastanza concreto, bisogna stare molto attenti. 

Nella mia vita ho sempre cercato di mantenere un sano equilibro tra la gratitudine e le possibilità che mi si sono aperte davanti e devo ammettere che uno stretto contatto con la mia famiglia d’origine e gli amici di sempre mi hanno aiutato a non perdere la direzione su cosa volevo essere e soprattutto su chi volevo diventare. 

Tutti viviamo in una bolla, più o meno confortevole, un mondo che ci siamo costruiti o in cui ci siamo ritrovati. Alcuni passano la vita a guardare attraverso l’oblò perché non ci sono le condizioni, perché la cabina è rassicurante e non sai mai cosa puoi trovare fuori. 

E fuori c’è un mondo travolto da mille altre bolle, milioni di realtà diverse, che provano a navigare felici, galleggiano con fatica e che qualche volta, anche senza averne troppe colpe, purtroppo scoppiano. 

Diletta, Houston

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Author

Diletta Texas

In uno strano mix di curiosità, poesia e resilienza, da quasi vent’anni giro il mondo con la mia famiglia. Tre continenti, otto paesi, due figli e un cane che si sono uniti strada facendo.
Lingua che arriva dritta al punto e cuore tenero e generoso. Appassionata, schietta e carismatica, amo cucinare se sono nervosa e andare a teatro se sono felice.

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