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Quando è il lavoro a trovare te di Angela

Trovare lavoro a Boston?
Angela ha vissuto prima Boston e poi a Zurigo: due esperienze totalmente diverse in abito lavorativo, nella prima ha dovuto darsi molto da fare per trovare il lavoro che desiderava, mentre nella seconda le è arrivato un po’ come ricompensa di tutto il CV che si è costruita prima. Nel post affronta le dinamiche che ha incontrato e ci regala tanti buoni consigli su come trovare lavoro negli Stati Uniti, generosamente si è resa anche disponibile a dare altri consigli se vi servissero. Finalmente ho trovato il coraggio (e il tempo) di raccontare un po’ come, con una laurea italiana in giurisprudenza, una pratica piuttosto pesante in Italia (come da copione) e mezzo esame di Stato fatto, sono partita per gli Stati Uniti a seguito di mio marito senza avere una idea chiara di come sfruttare le mie competenze. Mio marito di sicuro non avrebbe potuto aiutarmi, ed un titolo di studio americano sarebbe stato troppo costoso e lungo, non sapendo per quanto tempo saremmo rimasti.  Avevo però la ferma intenzione di rimanere nel mio settore lavorativo, senza scendere a compromessi (santo mio marito per la pazienza che porta con la mia testardaggine!).

A Boston, città famosa per il numero decisamente troppo alto di avvocati, e che per questo ha visto ambientata nelle sue corti la serie Allie McBeal, non prometteva proprio benissimo.  A dire il vero, sapevo di avere  il “vantaggio” di non aver frequentato le corti italiane (settore molto meno spendibile all’estero) ma di essermi occupata esclusivamente di fusioni e acquisizioni tra società, contratti internazionali, privacy: tutte cose che si allontanano molto da come chi non è del settore si immagina gli avvocati- niente giudici, niente arringhe, niente spigliata intraprendenza.  Solo tante, troppe ore (in genere, 12-13) di studio tra carte e telefonate con i clienti, dietro una scrivania, sabato (e a volte domeniche) incluso, con uno stipendio da insulto (ma ero comunque pagata, quindi dovevo pure sentirmi fortunata).  Chissà come mai ho preso al balzo la proposta di spostarmi all’estero!
Arrivata negli USA, fortunatamente con un visto che mi avrebbe permesso (dietro autorizzazione) di lavorare, e senza la necessità di avere un’altra entrata (anche se ci si stava “strettini”), ho cominciato a conoscere persone, chiedere aiuto per trasformare il mio CV in un résumé (perchè anche quello è diverso negli States), frequentare corsi di inglese gratuiti nelle biblioteche pubbliche, perchè l’inglese parlato era, beh, non proprio pervenuto…  A tal proposito, vogliamo parlare dell’accento di Boston? Un guazzabuglio di pronounce senza regole che solo Ben Affleck in Will Hunting.  Insomma, tutto quello che la città aveva da offrire, io l’ho preso, con la sfrontatezza tipica italiana: e chi ci ferma?!?!  Poi, avendo accesso ad alcune risorse per gli studenti dell’MIT tramite mio marito (o meglio, tramite la MIT Spouses&Pertners associations alla quale avevo deciso di partecipare), ho assistito ad un seminario su come prepararsi per le job interviews (ma questi seminari son presenti anche nelle biblioteche pubbliche, generalmente): il processo di assunzione negli States è piuttosto formale, standardizzato, e dimostrare di sapere come funziona è essenziale.
Nel frattempo, il networking: senza avere le conoscenze negli States non si arriva da nessuna parte. Ma non è come in Italia: quando una persona ti raccomanda, deve metterci la faccia. Se non sei bravo, è la sua reputazione che ne va di mezzo, non la tua. Quindi è ben lontano dal nepotismo all’italiana.
Dopo aver costretto alcune di loro a farmi delle “mock interviews” per mettermi alla prova, e non trovando contatti utili, ho deciso di partecipare alle “fiere del lavoro” (job fairs o career fairs), dove un certo numero di aziende pubbliche e private mostrano le loro “open positions” e cosa offrono in termini di benefits, e i candidati consegnano i loro résumés, dopo una chiaccherata veloce. Io non avevo molto da offrire, e il mio inglese parlato non era certo eccellente: ma tanto cos’avevo da perdere?
Così uno dei recruiters presenti (immigrato di seconda generazione: gli avrò ricordato I suoi genitori!), dopo una chiaccherata e aver letto il mio résumé, si è offerto di farlo a vedere all’Attorney General dello stato del Massachusetts.  Due giorni dopo ho finalmente avuto l’interview per una legal internship al suo fianco.  Da lì, con un “foot in the door“, ho avuto l’occasione di dimostrare (con ore di studio fuori dall’ufficio per integrare le lacune) di poter contribuire positivamente pur avendo un’educazione straniera e provenendo da un sistema giuridico profondamente diverso.
Di lì a poco, sparsa ulteriormente la voce, ho trovato lavoro come foreign legal/privacy consultant (settore che ho sempre amato anche lavorando in Italia) in una software house, lavorando a fianco del General Counsel.  In 6 mesi, ho trovato un lavoro che mi dava soddisfazioni e nel quale potevo gestire autonomamente i progetti legati alla mia sfera di competenza, lavorando con leggi e regolamenti sparsi su 3 continenti.  Non ero mai stata così serena in ambito lavorativo, nonostante la responsabilità affidatami (il potenziale per far danni c’era tutto!).  Talmente tanto serena, che nel mentre abbiamo deciso di allargare la nostra famiglia: nel 2014 è arrivata la nostra bimba, soprannominata rigorosamente “patata americana”, in linea con la tradizione del nord-est Italia da cui veniamo!
Quando a dicembre 2014 abbiamo deciso (grazie al lavoro di mio marito) di spostarci in Svizzera, a Zurigo, non parlando tedesco e non sapendo nulla del locale mercato del lavoro, ho pensato: “Vabbè, questa volta rimango a casa… tra il costo degli asili, e il poco tempo che la patata americana mi lascia (cosa che, senza i nonni a disposizione, a volte solo noi expat capiamo), chi lo carca il lavoro?”.  Ed invece il lavoro ha trovato me!  Dopo 6 mesi e grazie all’esperienza maturata in Italia e negli States, il mio nome evidentemente continuava ad apparire sugli schermi degli head hunters svizzeri (grazie LinkedIn!!!!). Così, dopo un paio di lunghissime ed estenuanti interviews, ora sono la persona di riferimento per la privacy in una multinazionale svizzera presente in 37 Paesi in giro per il mondo.
L’ambiente di lavoro è completamente diverso, sono precisi, rigidi, incredibilmente organizzati, trasparenti e schietti (a volte un po’ troppo, ma ci si abitua).  Sono in ufficio alle 7 del mattino (con 50 minuti di treno all’andata e 50 al ritorno), ma riesco ad uscire presto così da passare il tardo pomeriggio e la serata con la patata americana.  Insomma, è successo di nuovo: ho trovato “il mio lavoro”, e sono felice.
Spostarsi può essere destabilizzante, e dopo un primo periodo in cui si vive da “turista” nella nuova città, si cercano i ritmi che si avevano prima, in versione migliore, e si comincia a pensare: “E adesso?”.
Quello che posso consigliare è di non pensare all’Italiana: “Non son capace – non son competente – gli altri son più fortunati/più bravi/hanno più esperienza”.  Buttatevi!  Vi siete appena trasferiti, cosa avete da perdere?  Quando smettiamo di lamentarci (cosa che sappiamo fare gran bene, e che gli States mi hanno insegnato a fare molto di meno), noi italiani siamo pieni di risorse, flessibili, ingegnosi, svegli.  Abbiamo un potenziale inestimabile che purtroppo è poco sfruttato in Italia: dobbiamo semplicemente avere il coraggio di mostrarlo al nostro Paese di adozione!  Aggiungiamo un pizzico di affidabilità, onestà (I furbetti non piacciono nei posti dove ho lavorato, di questo ne son certa), puntualità, e pacatezza che non guasta mai, ed il gioco è fatto.
A me è servito molto partire con le idee chiare e credere in quello che avrei potuto fare, rimanendo flessibile quanto ai modi con cui arrivarci e, poi, ai rapporti con i colleghi (episodi di imbarazzo/scontro culturale sia negli States che qui sono sempre dietro l’angolo).  Le esperienze di correr dietro ai nuovi contatti per farmi fare delle mock interviews o partecipare alle fiere del lavoro, o ancora di imparare i metodi di team management dell’esercito svizzero, poi, non le avevo proprio immaginate.
Non so se sono riuscita a descrivere la mia esperienza adeguatamente, o se sia di qualche interesse, la decisione la lascio a voi expat di lunga data con molta più esperienza e Paesi alle spalle! Nel mio piccolo, so che continuare o cominciare come nel mio caso a  credere in se stessi quando ci si sposta “a seguito” è difficile, per me in alcuni momenti lo è stato.  Se il mio racconto riesce ad accendere un sorriso di speranza in chi fatica a buttarsi nella mischia alla ricerca di lavoro, ne son felice.
Angela, Zurigo.
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