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LE RADICI DEVONO AVERE FIDUCIA NEI FIORI

radici
Written by Manuela Sydney

I legami, la rete, le relazioni umane, sono quanto di più prezioso ho al mondo.
Considero le persone care il mio tesoro, l’unica vera ricchezza della vita.
L’intimità ci mette in discussione, ci guida verso le profondità dell’animo umano, ci aiuta a guardare il mondo da prospettive diverse e più ampie.
Quando incontro qualcuno di speciale, mi piacerebbe poterlo condividere con tutti. Condividere la bellezza di chi ci porta nutrimento è preziosissimo.

Ho lavorato insieme a Mara Neumann molti anni. Le sarò grata per sempre per la generosità che ha avuto nel passarmi un mestiere. E non solo a lei.
Ancor di più sono grata per aver trovato in lei un’anima sorella, un’anima con cui ho instaurato uno dei legami più profondi che ho.
Sono felice di condividere con voi questa chiacchierata.

Tu vieni da una famiglia che ha vissuto sulla propria pelle tante vicende storiche e si è, in più fasi, sparsa per il mondo. Raccontami la tua storia.

Questa domanda mi fa un po’ sorridere, mi fa ricordare che, quando ero piccola, l’unica cosa che raccontavo di me era proprio la mia storia o meglio la storia dei miei genitori. Mi sembrava fosse l’unica cosa interessante da dire! Adesso è tanto che non la racconto più…

Sono nata a Montevideo, in Uruguay, da una famiglia di origine interamente europea emigrata in Sud America in momenti diversi del secolo scorso.
Mia madre Lily Salvo era un’artista. Una pittrice con un incredibile talento, entrata a 14 anni all’Accademia d’Arte e, pochi anni dopo, nella prestigiosa scuola di Joaquín Torres García. La famiglia di mia madre arrivò in Argentina agli inizi del secolo scorso dall’Italia, dai Paesi Slavi, dal Belgio, dalla Francia. Tutte storie di cui purtroppo so poco. I miei nonni non raccontavano molto e la morte improvvisa di mia madre mi ha privato della fonte…

Al contrario la famiglia di mio padre è sempre stata molto narrativa, oserei dire auto celebrativa.
Mio nonno Kurt ha scritto una bellissima autobiografia El Caminante che ha dedicato a me credo proprio con l’intento di lasciare traccia scritta, per non far dimenticare le nostre radici, la nostra storia.
Ricordo che mi mandava i fogli via fax, a puntate: una puntata ogni settimana.

Nel libro racconta il periodo storico che va dal 1920 circa fino al 1990: il nazismo, le persecuzioni, la fuga della nostra famiglia (ebrea) verso il Sud America, la Bolivia negli anni ’30 e ’40 e poi l’Argentina con la crisi economica, l’Uruguay degli anni d’oro (‘50 e ‘60) e l’inizio della dittatura militare (’70). Trovo interessanti soprattutto i racconti sull’inizio dell’antisemitismo in Germania, sulla gradualità con cui la realtà intorno comincia a cambiare e di come, un tassello per volta, quello che poteva sembrare inaccettabile, proposto a piccole dosi, diventa a un certo punto la nuova normalità. È terribile osservare come può cambiare e modificarsi una società. Proprio come la storia della rana bollita e mi rendo conto di aver ereditato una particolare sensibilità su questo punto.

Mio nonno è stato lucidissimo nel decidere di andarsene prima che fosse troppo tardi. Mi diceva sempre che, chi era rimasto troppo legato ai propri beni, alla propria casa, alla propria vita e ai propri confort, o chi si era svegliato troppo tardi, alla fine non riuscì a scappare e venne sterminato. Sono storie molto forti, di famiglie che si lasciavano tutto alle spalle, mettendo in mezzo un oceano e con una totale incognita davanti.

In quegli anni, per un ebreo, non era semplice lasciare l’Europa: occorreva avere un Paese ospitante e un visto speciale. Mio nonno, che a quel tempo già viaggiava per lavoro tra Austria, Germania e Svizzera, iniziò a muovere mari e monti finché, nel 1933, riuscì con mille stratagemmi a ottenere un permesso per emigrare in Bolivia. Il viaggio fu un’epopea familiare … solo il viaggio meriterebbe un’intervista.

Comunque, dopo circa un mese, raggiunsero Cochabamba, a quel tempo piccola città sulle Ande a 2.500 metri di altitudine dove la lingua principale non era neppure lo spagnolo ma il quechua! Immagina lo shock culturale, arrivare lì dalla Germania senza sapere una parola della lingua, tra foreste amazzoniche e Ande, senza mezzi di comunicazione, avendo lasciato tutta la vita precedente alle spalle e senza sapere nulla di come andare avanti…

Storie simili a quelle di chi oggi cerca di arrivare in Europa fuggendo da guerre o dittature. Storie terribili e dolorosissime. E sarà probabilmente per la mia storia familiare che su questo tema ho sempre avuto una visione abbastanza radicale. Per quanto mi riguarda, l’unica cosa che mi sembra possibile fare di fronte a un essere umano che sta fuggendo dal suo Paese e che ha bisogno di aiuto è: accogliere. Mi è incomprensibile il contrario. Tutte le argomentazioni che possono essere date come giustificazione per tenere qualcuno fuori da un confine, per me non sono accettabili. A dire il vero, contesto anche il concetto di confine ma non voglio divagare.

Tornando alla storia, dopo qualche tempo i nonni riuscirono ad ambientarsi abbastanza bene, impararono lo spagnolo e un po’ anche il quechua. Il nonno aprì una importante ditta di forniture idroelettriche, la vita cominciò ad essere sicuramente molto più agevole e nel ’44 nacque mio padre Andres.
Dopo qualche anno in Bolivia, decisero di spostarsi in Argentina, soprattutto per offrire un’istruzione e una vita culturale migliori a mio padre, ma l’avventura in Argentina fu breve e fallimentare (per una delle tante crisi economiche che hanno caratterizzato la storia in Argentina) e così decisero di stabilirsi in Uruguay, la Svizzera del Sud America. E in Uruguay trovarono pace: Montevideo negli anni ’60 era una città molto ricca e culturalmente molto attiva e lì si sentirono finalmente a casa, un luogo dove poter mettere radici.

Fu a Montevideo che i miei genitori si conobbero intorno al 1970 nel vivissimo mondo artistico e intellettuale di cui entrambi facevano parte. Mia madre era più grande, aveva già avuto i miei fratelli Aldo e Bruno. Entrambi erano già sposati. Mio padre lavorava nel mondo del teatro e mia madre era una pittrice affermata. Tra mia madre e mio padre nacque subito una grande passione. Molto travagliata, per evidenti motivi. E proprio in quel periodo cominciò l’ondata delle dittature militari in tutto il sud America.

Nel maggio del ’72 , quando nacqui io , tutto stava cambiando, si avvicinava il colpo di Stato, le forze militari erano presenti in maniera sempre più pervasiva e i miei erano molto preoccupati. Mio padre, con la stessa lucidità che fu di mio nonno, capì che era il momento di andarsene. Fu una decisione durissima per tutti e due e devastante per mia madre che lasciava in Uruguay due figli adolescenti (che sarebbero rimasti col padre). Come fu per mio nonno, anche mio padre dovette trovare uno stratagemma per andare via perché non si poteva partire senza un visto speciale, senza un motivo valido. Fu grazie ai legami con la Comédie-Française e grazie a Jack Lang, allora Ministro della Cultura, che riuscì ad ottenere un visto di lavoro per il Festival del Teatro di Nancy in Francia.

Fu così che attraversammo di nuovo l’oceano, appena prima che la situazione precipitasse e arrivammo in Francia nell’ottobre del ’72.
Restammo a Nancy due anni.
Umanamente non fu un posto particolarmente accogliente per due immigrati uruguayani (e infatti mia madre mise subito in chiaro che lì non sarebbero rimasti!), ma lavorativamente per mio padre fu un’occasione d’oro. Il Festival di Nancy negli anni ’70 era forse il centro culturale più importante d’Europa, passavano da lì i più grandi artisti del momento: Pina Bausch, Peter Brook, Kantor.

Lì mio padre mise le basi in poco tempo per quello che sarebbe stato il suo lavoro per i successivi 30 anni: portare le grandi compagnie di teatro in giro per il mondo.
Un mestiere che a quell’epoca quasi non esisteva, anche perché si viaggiava poco e pochi sapevano le lingue.

Nel 1974 i miei genitori decisero di trasferirsi in Italia, a Firenze, grazie ad alcuni contatti stabiliti proprio a Nancy. E in Italia decisero di stabilirsi definitivamente.
Mio padre aprì la sua agenzia di produzione e distribuzione di teatro che crebbe molto velocemente e cominciò molto presto una strettissima collaborazione con Renato Nicolini, allora assessore alla cultura a Roma.
Con lui, e con Patrizia Sacchi (attrice e compagna di Renato, conosciuta già a Nancy anni prima), ci fu in quegli anni una intima amicizia e una grande collaborazione professionale che incise sulla vita di tutta la famiglia. Infatti, proprio grazie alla stretta collaborazione con Renato, mio padre decise di spostare tutta la famiglia a Roma.

E che bella idea che ebbe! E che gratitudine per Renato e Patrizia! Perché di Roma mi innamorai a prima vista. Ricordo una sensazione fortissima, un vero colpo di fulmine: ero ammaliata da tutto, dalla luce dorata, dagli alberi, dai colori delle case, dal Tevere, dal ritmo della città, dal calore delle persone. La vedevo come una donna meravigliosa, come una madre. Mi sentivo abbracciata. La trovavo (e la trovo) di una bellezza disarmante, avvolgente, morbida.
Insomma a Roma ho sentito che avevo trovato la mia città, la mia città d’elezione e che qui avrei piantato le mie radici.  

Le radici aeree che hai ti sono preziose? Ti hanno creato delle difficoltà interne di qualche tipo? Si tende sempre a rimarcare la bellezza delle radici aeree: si conoscono più culture e più lingue, si sviluppa l’adattabilità. C’è un dark side?

Non credo che sia possibile generalizzare. Ci possono essere alcuni punti generali sullo sfondo, ma poi dipende dalla storia personale e da come tutto si collega e si intreccia con il carattere di ognuno di noi, con il nostro vissuto specifico.

In generale, non c’è dubbio che avere radici aeree o comunque avere una famiglia cosmopolita apra la mente, in tutti i sensi. Questo è indubitabile. E non è poco.
Dopodiché entrano in gioco aspetti di storia personale.

Per quanto riguarda me, posso certamente dire che sin dalla mia nascita (e forse già quando ero nella pancia di mia madre) ho assorbito un grande senso di instabilità, di precarietà e di non sicurezza. La sensazione che qualcosa di grave stava succedendo, di dover stare sempre in guardia. Sensazione che mi sono portata per tutta la vita. Adesso la maneggio molto meglio ed è infinitamente ridimensionata ma sullo sfondo c’è, non posso negarlo. E so bene che si tratta di un tema transgenerazionale: non ci siamo mai spostati per il piacere di scoprire il mondo, ma sempre in fuga da qualcosa.

Ma sicuramente al di là delle difficoltà, il fatto di avere delle radici aeree è stato anche un grande nutrimento. E sono felice della storia che ho, così come è. Mi ha impresso a fuoco dei valori inattaccabili, la linea chiara di come voglio stare al mondo, di cosa guida i miei passi e di come voglio vivere. In questo senso possiamo dire, come per gli alberi, che le radici sono strettamente collegate ai boccioli, ai fiori, a chi sei oggi… sono due livelli totalmente collegati. Siamo chi siamo grazie alla nostra storia e anche alle nostre ferite che, curate, possono fiorire.

Sicuramente la vita con radici aree è molto ricca ma anche faticosa, soprattutto se si è bambini. Ad esempio un aspetto difficile di cui, ricordo, ho sofferto per molti anni è la sensazione di non essere veramente a casa da nessuna parte. Da una parte mi sentivo legata all’Uruguay. Lo spagnolo è la mia lingua madre, la lingua delle canzoni che ascoltavamo in famiglia. Ma allo stesso tempo l’Uruguay era per me un altrove slegato dal mio presente. Avvertivo la sensazione che, ovunque fossi, mancava sempre qualcosa, una parte di me. Ed è un po’ un dilemma senza soluzione. Ovunque sei, non ci sei mai con tutti i pezzi. Questa sensazione è andata poi scemando negli anni e a Roma da adulta è scomparsa del tutto. Oggi sono qui, mi sento a casa, mi sento intera.

Un altro aspetto che ricordo essere stato lungo da metabolizzare è che da piccola avevo la sensazione che nessuno mi potesse veramente capire. Mi sembrava di avere una storia troppo diversa dagli altri. Di nuovo, non voglio generalizzare, ma questo ha avuto come conseguenza un legame e una identificazione troppo forte con la famiglia, come unico riferimento che io sentivo simile a me e quindi con un senso di estraneità rispetto a tutti gli altri, una sensazione di non poter entrare in intimità profonda con altre persone.
Crescendo questo è cambiato. Oggi ho una profonda comunicazione e intimità con persone con storie diversissime dalla mia. Sono altre le cose fondamentali, è una fratellanza di visione, di anima, di modo di vedere il mondo, anche partendo da radici e storie completamente diverse.

Cosa rappresentano (e da cosa sono rappresentate) per te le radici?

Le radici mi fanno pensare a qualcosa di molto connesso con il senso di identità, con ciò che ci ricorda chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando, che ci ricollega da una parte alla nostra storia (chi sono stato fino a oggi) e dall’altra ci dà direzione e senso per muovere i passi successivi.
E quindi mi chiedo (parafrasando la tua domanda): cosa mi ricorda chi sono?
Non credo sia una cosa sola.

Sicuramente la mia stessa storia, tutto ciò che ho incarnato, che ho fatto mio, la mia costellazione familiare e tutto ciò che ho vissuto (memorie di me direbbe il mio compagno Alfredo), che da una parte mi ricorda chi sono e, dall’altra, contraddistingue anche il mio modo di pensare, il mio particolare modo di guardare il mondo e che guida le mie azioni, la mia direzione, le mie scelte… ed è una radice senza luogo perché è in me e la porto sempre con me.

Un altro elemento, radice e identità, sono per me le persone che amo, quando passo del tempo con mio figlio Leone, col mio compagno, con te, con qualcuno con il quale sono in intimità. Mi ricordo di me… ti vedo, ti riconosco e allo stesso tempo in quello scambio mi vedo, mi sento, mi ricordo di me.

Poi c’è sicuramente un luogo fisico nel mondo. E il posto  che sento particolarmente casa è sicuramente Roma, senza nessun dubbio.
Ma anche altri luoghi in Italia e soprattutto da Roma in giù … come direbbe Pina Bausch: amo il sud.

Poco tempo fa, per esempio, ho scoperto il Cilento e mi ha stregato. Dopodiché, anche se sono molto stanziale (probabilmente come dicevamo per reazione alla mia storia), conosco in me la capacità dei nomadi di fare un po’ casa ovunque… come le tribù che a fine giornata piantano la tenda, srotolano un tappeto, accendono il fuoco, servono un thé e sono a casa. Io mi sento anche un po’ così nel senso che ho chiaro quali sono i miei oggetti magici, quelli che mi fanno fare casa ovunque io sia.

Poi ci sono posti che ti radicano in modo particolare, che magari non sono solo in uno specifico luogo del mondo ma che ti fanno un effetto ricordo di te.
Per me, ad esempio, gli studi degli artigiani, una piccola falegnameria, un negozio di pitture… questo sicuramente è per la mia frequentazione da piccola da una parte dello studio di mia madre sempre pieno di colori, tele, telai, materiali di ogni tipo, e dall’altra dei backstage dei luoghi del teatro dove si “costruisce” lo spettacolo… Ecco quando mi avvicino a luoghi cosi mi sento assolutamente a casa, potrei sedermi li e passarci la giornata.

E poi mi viene in mente anche la natura. Quante volte ho sperimentato il senso di radicamento e il ricordo di me stando semplicemente nella natura, in un bosco, in riva al mare, sotto un pino o un eucalipto con i piedi nella terra.
Insomma per fortuna sono tante le radici, almeno per me… Che se fosse solo una saremmo inguaiati.

Perché Roma è casa?

Se devo legare le radici a un luogo, le lego a Roma.
Roma per me è stata una scelta. Forse quando un luogo non è tuo per nascita, ma l’hai trovato per fortuna, nutri una riconoscenza diversa. Io qui ho veramente sentito di voler fare casa. Di solito noi tutti, me compresa, la critichiamo perché è disorganizzata e un po’ sgarrupata … ma questa è l’altra faccia di una morbidezza amorosa di cui io mi nutro tutti i giorni. Cosa altrettanto vera per l’altra città in cui adesso da qualche anno sto piantando radici: Napoli. Lì a caos e sgarrupamento non si scherza! Ma neanche a bellezza e amore!

Quanto è importante per un individuo potersi specchiare in un gruppo di appartenenza?

Penso che sia la cosa più importante e penso che sia stato il motivo per cui io mi sono innamorata in particolare di Roma. Una cosa fondamentale, per sentirsi a casa e poter piantare radici, è quella di sentirsi accolti, riconosciuti e valorizzati. Visti. Da un contesto che ti apre le porte e in cui tu ti senti incluso.

Prima di arrivare a Roma, mi sentivo come una pianta che viene spostata insieme al suo vaso. Arrivata a Roma, invece, ho sentito che la mia pianta entrava nel terreno, faceva rete con la linfa che c’era nel campo e che il campo si allargava enormemente. Ho visto una bellezza speciale e ho sentito una comunanza d’intenti con le persone che incontravo. Ho trovato stimoli, discussioni interessanti, un grandissimo spirito di apertura, curiosità, amore per la complessità.

In questo momento mi addolora molto osservare come la difficile situazione che stiamo vivendo globalmente stia modificando il “clima” di fondo, ovunque e anche qui. Si sente maggiore chiusura, superficialità, assenza di complessità, assenza di curiosità, meno apertura all’altro.
Ma questo sappiamo che è così: tutte le pandemie nella storia hanno portato sempre divisioni, odio e separazioni. È l’effetto della paura. E questo mi intristisce e mi fa sentire un po’ più sola di come mi sentivo prima, una strana sensazione di “disconocimento”… la realtà è cambiata e si è incrinata la sintonia.

Penso che in questo momento difficile dobbiamo tutti assumerci consapevolmente la responsabilità del contributo che vogliamo dare. In che direzione vogliamo andare? Vogliamo alimentare chiusura e separazione? O provare a restare aperti, uniti, svegli? Tutti parlano di uscire dalla pandemia ma quasi nessuno di come ne usciremo cambiati, di che umanità saremo una volta che ne saremo usciti… ecco, penso che il secondo punto sia altrettanto fondamentale.

Manuela, Sydney

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Author

Manuela Sydney

Sono una persona curiosa. Spesso i dettagli mi attraggono più dell’insieme. Amo viaggiare (e anche tornare). La mia passione più grande è il teatro. Ho due figli, sono calabrese, ma anche romana. Sono laureata in lettere con indirizzo teatrale e a Roma organizzavo eventi culturali. Ho fatto per 2 anni la spola tra Nigeria e Italia e per 4 anni tra Namibia e Italia.
Da qualche tempo vivo a Sydney con tutta la mia famiglia, studio naturopatia e lavoro in una radio!

3 Comments

  • Bellissima intervista Manuela, sono veramente affascinata dalla storia di Mara e da come descrive lucidamente il suo essere e sentirsi figlia di tutto questo svolgersi di eventi familiari. Da leggere e rileggere, veramente.

    • Grazie di cuore Alessandra!

      Sono molto felice di averla scritta e di aver raccontato questa storia.

      Mi sembra che le parole di Mara offrano molti spunti su cui riflettere e che aiutano ad allargare il pensiero e la prospettiva.

      ♥️

  • Grazie,Manuela ..mi sono presa del tempo per leggere ed assorbire i contenuti del tuo articolo,per elaborarli..la tua è una Storia meravigliosa..ricca intensa,le radici aeree tema importante il riconoscimento di un luogo,forse per me è un punto difficile..ho cominciato a cercare un luogo non frammentato ma con una qlc parte di me all’età di 65 anni vagando tra Malta Dalmazia Canarie..e sto rientrando in Italia dove forse stanno le radici di me..senza vaso con i legami come acqua e nutrimento che si espandono..o lo faranno..sto staccandomi dalle Canarie dove non trovo nulla di me..sto chiudendo questo capitolo riaprendolo a Verona lì c’è tanta roba per me..sono buddista e dove sento quel mantra ,e ci sono candele incenso .. è casa come le tribù..quel suono quei profumi.. l’interiorità.. è casa ed è a Verona.. chissà..un abbraccio e grazie

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