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La magia di Sara dall’Argentina

Mi chiamo Sara e sono più di dieci anni che vivo fuori dall’Italia: Scozia, Marocco, Cuba, Spagna, Argentina, sono solo alcune delle mete che ho scelto come “Casa”.
Cambiare maschera, fare nuovi amici, pattinare tra diverse lingue, sentirmi libera, ecco alcune sensazioni che mi accompagnavano nelle mie continue avventure almeno prima di essere madre. Poi un giorno freddo e soleggiato di tre anni fa diedi alla luce una bellissima bambina in terra Argentina. Da allora il viaggio è passato dalla scoperta del mondo alla scoperta di me stessa; diventando trapezista tra la mia cultura d’origine e quella del Paese che mi ospita.

Seguendo la carriera di mio marito sono atterrata in una città a quattrocentocinquanta chilometri da Buenos Aires, che per le distanze argentine è veramente vicina. Per me no! Quattro anni vivendo qui coi miei capelli corti e ricci, il rossetto rosso sulle labbra e i miei vestiti italiani. Sono un pugno nell’occhio in un mondo di donne vestite casual all’acqua e sapone, dai capelli lunghi dritti che scendono fin oltre la schiena.

Per non parlare del mio essere madre!

Ogni mattina cerco il mio cappello da strega e mentre lo indosso con l’altra mano preparo il caffè ‘Lavazza’ che sta finendo e già so che sarà una tragedia! Mia figlia si sveglia urlando che andrà all’asilo solo con la gonna, così anche oggi verrò richiamata dalla direttrice dell’asilo che mi ricorda che il grembiule si indossa sopra  o non sotto alla gonna. Io mi difendo sostenendo che a tre anni è giusto favorire la creatività del bambino; se mia figlia volesse vestirsi da Spiderman la porterei vestita di blu e rosso. Lei scuote la testa e come al solito mi ricorda che non ho ancora insegnato a mia figlia a scrivere il suo nome. Sfodero quindi le teorie Montessori perché essere madre all’estero vuol dire prendere una laurea in Psicologia, Pedagogia, Psicomotricità, Logopedia, quella in Relazioni Internazionali ce l’avevo già.

Finita la chiacchierata prendo la mia scopa e volo tra le diverse attività, solitamente indosso enormi cuffie bianche alle orecchie per evitare che qualcuno mi parli chiedendomi da dove vengo. Quando dico che sono Italiana in un Paese dove il sessanta per cento della popolazione era di immigrazione italiana e se calcoliamo che non tutti si sono sposati solamente con italiani, quindi ho circa il novantasei percento di probabilità di trovare qualcuno che abbia almeno un discendente italiano, allora è d’obbligo il racconto di tutta la storia della sua famiglia, che, per chi come me che ha scritto libri sull’immigrazione, non sarebbe nemmeno troppo sbagliato. Il problema è la fase due quella in cui testano la mia italianità e io finisco sempre per essere bocciata! Non sono mai abbastanza italiana: non so fare la pasta fatta in casa, non so parlare tutti i dialetti italiani e non so mai dove si trova il paesino da cui i bisnonni sono emigrati. Meglio non finire in una interminabile discussione primo perché non porto mai con me la carta d’identità italiana secondo perché in fondo per loro l’Italia è quella della nonna, quella dei pranzi in famiglia di domenica con un sacco di cibo e mille parenti, a cui io cerco di fuggire da sempre.

Se poi nel pomeriggio c’è da andare alla festa di compleanno di qualche bambino dell’asilo, indosso perfino il mantello da strega! Per prima cosa faccio fare un bel disegno colorato a mia figlia, poi andiamo a comprare il regalo ed infine lo impacchettiamo con tanto di fiocchetto colorato. Arriviamo alla sala giochi e io mi fermo ad osservare la mia piccola che gira come una trottola con in mano il pacchetto che brilla nella sua carta luccicante alla ricerca del bambino festeggiato. Mi spiace scrivervi che la maggior parte delle volte intervengo non con la bacchetta magica ma con un abbraccio indirizzando mia figlia alla madre del festeggiato. Ferma, osservo la faccia stupita della donna che ringrazia imbarazzata perché qui si usa solamente dare dei soldi, non regali. Una semplice busta bianca con dentro dei soldoni verdi, senza nemmeno un biglietto con su scritto “Auguri”, viene lasciata all’entrata della sala in una cassetta anonima. Dopo aver sfoderato il mio sorriso migliore cerco di essere gentile con tutte le mamme dai capelli lunghi stirati da parrucchiere che sono nuovamente incinta del terzo o quarto figlio. La maggior parte di loro non l’ho mai vista non incinta quindi si parla solo ed unicamente di pannolini. Mi annoio. Guardo continuamente l’orologio sperando che qualcuno mi chiami, ma in Italia è già notte e difficilmente sarò salvata per le prossime due ore.

Una volta a casa mettendo sul fuoco il pentolone di pozione magica per cena, cerco di convincere mio marito a mangiare ad un orario intermedio perché se mangiamo alle dieci poi si va a letto a mezzanotte e ci si sveglia alle sei, io il giorno dopo muoio di sonno! Immaginatevi mia figlia, non la sveglio nemmeno col cannone!

Ma la parte migliore è intorno alle due, tre di notte quando il mio vicino ha deciso di far festa, sfoderando la migliore ‘Cumbia’ dell’intera regione, una musica che a me mette mal di testa solo all’idea di ascoltarla. È così gentile che tutta la via può sentire la sua melodia, il pavimento vibra e mia figlia esce dalla sua stanza con gli occhi semi chiusi indecisa se ballare o continuare a dormire. Ovviamente l’accolgo nel lettone e a suon di coccole l’addormento nuovamente. Ma a me passa il sonno. Accendo la luce, cerco nel libro degli incantesimi come trasformare il vicino in un rospo o farlo direttamente sparire dalla faccia della terra. Salto al capitolo come spegnere la musica con la telecinesi e infine guardo mio marito che dorme profondamente come se niente fosse, anzi a dir la verità un po’ russa.

“Bisogna solo abituarsi!” Mi dico spegnendo la luce. Chiudo gli occhi e finalmente sogno che alzò la bacchetta magica ed….. Abra cadabra!

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