Quando sono diventata mamma, Bea e Alice in modo ovvio e naturale sono diventate amiche (o almeno amichevoli) con la prole delle mie amiche. Poi Bea ha cominciato l’asilo e per la prima volta mi sono ritrovata a relazionarmi con altri adulti con i quali la sola cosa che avessi in comune era il fatto che i nostri figli fossero nella stessa classe.
E’ successo in Polonia, dove la barriera linguistica era notevole ma tra tutte le compagne di Bea, quella a cui lei era più affezionata era proprio l’unica con la mamma angloparlante, nonché l’unica tatuata, piercingata e vestita da contestatrice. Insomma la Punkabbestia e l’Italiana perennemente struccata e arruffata (le donne polacche rarissimamente rinunciano a dormire mezz’ora in più al costo di uscire di casa men che curatissime), così marcatamente diverse dagli altri genitori (compresi i nostri mariti profumati e incravattati :-D) che non potevamo che, giorno dopo giorno, scoprirci simili: tutt’ora quando torniamo a Varsavia ci incontriamo al parco giochi vicino casa e sia per noi che per le bimbe sembra d’esserci salutate ieri.
Armata di questa singola ma positiva esperienza, sono arrivata a Houston contando sul fattore scuola per costruirmi una nuova rete, ma molto velocemente ho capito che questa volta non sarebbe successo: data l’urbanistica della città , tutti i bambini venivano portati a scuola in auto e la necessità di liberare al più presto il parcheggio per gli altri genitori in coda rendeva impossibile qualunque scambio verbale. Oltretutto, nella prima scuola metà dei bambini erano portati a scuola da maid o nannies (era una preschool molto cara consigliata dalle colleghe di mio marito, la maggioranza delle mamme avevano lavori di alto profilo) che naturalmente non avevano nessun interesse a conoscere gli altri genitori perché erano al lavoro. Nella seconda prescuola, nell’unico quartiere “semicamminabile” di Houston, gli estremi per due parole senza autovetture di mezzo ci sarebbe anche stato, ma il 95% de bambini erano asiatici e indiani: i primi dopo scuola erano portati ogni giorno a fare altre attività dalle tiger moms, i secondi venivano lasciati a scuola fino alle 19.30 perché avevano entrambi i genitori al lavoro nel settore medico/ricerca. Insomma, mi son trovata la mia rete un po’ per fortuna e un po’ arando i socials per expat e poi le mie bimbe son diventate ancora una volta amiche dei figli delle mie amiche.
Arrivata a Londra, la mia prima preoccupazione è stata quella di trovare la scuola più adatta alle mie bimbe, e per noi era anche un elemento importante il fatto che avessero la possibilità di crescere in un contesto di bambini provenienti da diverse culture e etnie, ma anche da diversi livelli sociali: l’uniforme poi cancella le differenze materiali. Nella nostra scuola ci sono bambini provenienti da tantissimi paesi diversi: in questa mescolanza di colori e di lingue, l’unica cosa che salta agli occhi è che di bambini bianchi inglesi ce ne sono pochissimi, principalmente assorbiti dalle scuole di zona esclusivamente per allievi cattolici o anglicani, e i loro genitori sono quelli che all’arrivo e all’uscita se ne stanno soli col telefono in mano, o al massimo parlano tra loro, senza mai mescolarsi agli altri. Le mie figlie hanno cominciato poco dopo il referendum Brexit e sentivo queste mamme bisbigliare A FAVORE del risultato. All’uscita, pur arrivando sempre con un po’ di anticipo, le altre mamme non erano particolarmente espansive nei miei confronti, aldilà del saluto di buona educazione. Poi ho avuto l’illuminazione: ero bianca come un cencio, bionda (ancorché mechata) e con gli occhi azzurri e non sentendomi parlare con nessuno, pensavano fossi British pure io 😀
Ho cominciato così la pratica all’uscita di parlare ad alta voce a mio figlio nel passeggino, in modo che si sentisse che ero italiana: le mamme arabe più giovani si sono avvicinate subito con curiosità per sapere di che parte d’Italia fossi, le mamme sudamericane hanno preso a parlarmi in portoghese e spagnolo perché si vergognavano del loro inglese e per quello fino ad allora mi avevano educatamente scansato. La mamma albanese che è timidissima nel suo inglese impacciato è esplosa con tutto il suo italiano imparato grazie alla nostra televisione. Il ghiaccio era rotto ma non era abbastanza per perforare la seconda barriera: man mano che le mie bimbe facevano amicizia con le nuove compagne, mi chiedevano di fare playdates, ma ad ogni mio tentativo di organizzare mi scontravo con IL GRANDE PROBLEMA LONDINESE. Nessuno ha (quasi) tempo per nessuno.
Ne sono vittima io stessa: sedici mesi che vivo qui e sono riuscita a vedere le mie più care amiche di anni che abitano anche loro in questa città massimo 4 volte cadauna. Tra quando gli impegni di ognuno non coincidono con quelli dell’altro, la metropolitana che si blocca, si rompe o va in manutenzione, le code impossibili, le maratone, i festival, i compleanni dei bambini in classe ogni singolo weekend, o semplicemente diluvia o si è influenzati , riuscire a trovarsi tra amici se non si abita letteralmente nel quartiere, è una sfida logistica enorme ogni volta. Avendo già le mie amiche che non riesco a vedere, non cercavo nuove tra le mamme delle compagne di classe, ma chiaramente alle mie figlie mancava fare playdates e giocare insieme ad altri bambini dopo scuola. Qui ho avuto fortuna con il condominio: alcune mie vicine di casa hanno bimbi della stessa età e nei pomeriggi freddi e piovosi è un’enorme comodità poter giocare tra un piano e l’altro senza nemmeno dover mettersi giacca e scarpe. Essendo tutti sotto lo stesso tetto, ci si  mette d’accordo all’ultimo momento e addirittura si fa a turno (te li tengo io cosi tu riposi un po’). Ciononostante, la questione playdates con compagne di classe rimaneva aperta e divenne un’emergenza dopo le vacanze invernali di febbraio, quando tornando a scuola mia figlia in Y1 si ritrovò un po’ esclusa perché mentre lei era andata in vacanza, le altre bambine si erano ritrovate per tutta la settimana a casa di una compagna. Lei non c’era stata e quindi non capiva gli scherzi, i riferimenti e non era inclusa nei legami che si erano creati in quel frangente.
Cercai di affrontare il problema da vari punti di vista, non ultimo insegnare a Bea che l’importante è essere gentili ed educati con tutti, ma non sempre si può essere amici con tutti quanti, a volte succede che ci si trovi con alcune persone e con altre no. Parlai con l’insegnante per chiederle consiglio, lei mi rispose che aveva notato che Bea fosse spesso sola durante la ricreazione ma pensava lo scegliesse lei, perciò lesse in classe alcune storie sull’amicizia e sull’inclusione. Poco prima delle vacanze di Pasqua mi fermai all’uscita da scuola a parlare con la mamma giapponese della compagna di Bea, con la quale Bea era molto amica i primi mesi di scuola, e che faceva parte del gruppetto che l’aveva allontanata. A me questa mamma a pelle piaceva tantissimo, sempre vestita in modo così buffo e rilassato, sempre così affettuosa con le bimbe, ma pure lei sempre di corsa e inafferrabile. Quel giorno aveva tempo, l’agguantai al volo e le dissi al brucio che volevo chiederle consiglio perché Bea era molto triste da quando non era più amica con Saya e non riuscivo a capire se c’era margine per recuperare il rapporto. La risposta fu altrettanto diretta: non ne ho la minima idea ma anche a me dispiace che Saya e Bea non siano più amiche mentre mia figlia ha preso questo brutto giro del gruppetto e alla fine ogni giorno torna a casa nervosissima. Scambiamoci i numeri, dopo Pasqua organizziamo qualcosa per sbloccare la situazione.
Un Numero.
Ce l’avevo fatta.
Ricominciata la scuola, inaspettatamente ci furono un po’ di belle giornate e la mamma giapponese propose di fermarci nell’aiuola fuori da scuola dove letteralmente ci sono 5 pietroni ,2 pali della luce e degli alberi, e tirò fuori un casco di banane. Le nostre figlie si misero a correre e giocare, mentre noi a chiaccherare . Scoprii così che faceva l’attrice, era separata quindi non tutti i giorni veniva a prendere le bimbe se dormivano dal papà . Il giorno dopo non pioveva e misi nel passeggino una reticella di mandarini, una bottiglia di succo d’arancia, bicchieri di carta. Ci fermammo all’aiuola fuori scuola, si aggiungessero altre due mamme della classe della mia piccola, le bambine correvano intorno ai cinque pietroni e iniziarono a studiare come arrampicarsi sugli alberi. Da lì in poi ogni volta che non pioveva riempivo di cibo il passeggino e ripetevo il copione, alcune volte si aggiungevano altre mamme. Finché un giorno le bambine giapponesi volevano fermarsi a giocare ma la mamma non poteva perché aspettava l’omino del Gas. E così proposi: lasciale qui, te le riprendi tra un’ora.
E così che ho capito che al GRANDE PROBLEMA LONDINESE corrisponde un metodo faticoso ma semplicissimo per superarlo: offrire il proprio tempo. Da quel momento in poi ho cominciato a offrire alle mamme delle compagne di classe preferite delle mie bimbe di prendere io all’uscita le pargole, per farle giocare ai 5 pietroni così loro potevano venirle a prendere un’ora dopo. Quando offri il tuo tempo, in questa città nessuno dice NO. Siamo arrivati a essere 5 mamme e 20 bambine ai 5 pietroni, nelle ultime settimane di scuola. Gli alberi sono stati scalati. Nel frattempo mi sono anche offerta di riportare a scuola per un mese una bambina amica di mia figlia quando ho scoperto per caso che il fratellino si era rotto il femore ed era immobilizzato in casa per tutto quel tempo. In cambio siamo stati invitati al nostro primo playdate per la fine del Ramadam e mi son commossa a ritrovarmi la cena fatta anche per me e mio marito.
A settembre è ricominciata la scuola ed è ricominciata la pioggia, ma ormai la compagnia di mamme e bambini dei cinque pietroni è solida e anche se non tutte hanno tempo, ce n’è sempre qualcuna che lo trova e prende anche le bambine delle altre. Si sono aperte le porte delle case, nonostante gli spazi ristretti, il casino di disordine, gli stendini perenni. E quando ho tirato fuori l’argomento compleanni perché quello di Bea è all’inizio di ottobre, la mamma di Saya ha proposto di farlo insieme, visto che sua figlia è nata a metà settembre. Nessuna di noi voleva spendere le cifre assurde che usano qui a Londra, entrambe odiamo i soft play e desideravamo una festa per bambini da bambini. Nel giro di dieci giorni abbiamo preso accordi per affittare il Salone della scuola, ci siamo divise a metà  acquisti di cibo, stoviglie, palloncini, lei ha fatto le torte, io le pizze, lei ha fatto la musica per i giochi, io i giochi. Il giorno della festa alcune mamme dei 5 pietroni sono arrivate in anticipo per aiutarci a preparare, mio marito ha fatto l’uomo del citofono e delle pulizie. Più di cinquanta bambini tra compagni di classe e fratelli e sorelle, un gran divertimento, una spesa più che ragionevole, ma soprattutto la prova che nonostante il GRANDE PROBLEMA LONDINESE, anche qui è possibile fare amicizia e creare solidarietà tra mamme e approfittare da adulti della stessa grande ricchezza umana che la multiculturalità di Londra offre ai nostri bambini.
Valentina Inghilterra
ps. No, le tiger moms sono rimaste inespugnabili, le compagnette cinesi dopo scuola hanno sempre troppi corsi per trovarsi a giocare!
Ha collaborato con Amiche di Fuso da luglio 2014 a giugno 2018
Adoro i tuoi post Vale, quasi quanto la tua intraprendenza 🙂
Che bello rileggerti Vale!
Ma lo sai che in fondo su questo Roma non è tanto diversa? Incontrarsi sembra impossibile se non si abita nello stesso quartiere o se non si fanno gli stessi corsi/sport. Qui sicuramente aiuta il clima e la parlantina italiana…vedremo come andrà , anche perché io sono appena arrivata.
Ciao Bella ma adesso quanti siete???
Siamo rimasti in cinque, credo che sarà il numero definitivo. Sto trasloco mi ha ammazzato, pensare di doverne fare un altro tra qualche anno con un figlio in più…ma anche no!!!! Tu hai intenzioni bellicose a riguardo????
Sei sempre a toga! Dovunque vai costruisci ponti d’amicizia.
I cinesi ci faranno fuori perché mentre i nostri bimbo giovani loro studiano. O forse finiranno tutti dallo specialista perché troppo stressati?
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