Mi sono trasferita in Giappone più di tre anni fa e per il momento ci sto così bene che ho deciso di restare. Ci sono innumerevoli aspetti positivi del vivere qui, ma è inevitabile, soprattutto avendo a che fare con una cultura così diversa dalla nostra, avere a che fare con lo shock culturale.
A questo punto sento di avere una vision un pochino più chiara di alcuni aspetti che all’inizio non avevo la capacità di delineare chiaramente. Questo non toglie nulla agli aspetti che amo della cultura giapponese, anche se inevitabilmente sono intrisi di questi elementi, a riprova che ogni medaglia ha due facce. E’ sempre necessario vedere le cose nella giusta prospettiva, cercare di capire anche quello che non siamo in grado di accettare.
Per quanto uno sia consapevole del fatto che la società giapponese sia etnicamente omogenea, credo che nessuno si aspetti fino in fondo le conseguenze dello spiccare così nettamente in mezzo alla popolazione locale. Al di là degli ovvi vantaggi (sono estremamente facile da individuare agli appuntamenti anche nei luoghi più affollati), la consapevolezza di essere così riconoscibile detta buona parte dei tuoi comportamenti.
Prima di tutto è estremamente facile puntare il dito contro di te, anche senza arrivare agli atteggiamenti di aperta discriminazione che in certi contesti sono innegabili, quindi inizi a preoccuparti di ogni minimo atteggiamento che potrebbe essere valutato negativamente, molto di più di quanto i locali stessi facciano.
A volte la consapevolezza di essere guardata con rimprovero su di me ha l’effetto paradosso di scatenare un atteggiamento ‘who gives a f…’ quindi faccio le cose tipo attraversare col rosso in strade deserte e mangiare per strada scuotendo la testa mentalmente e dicendo con disapprovazione “gaijin!”.
In alcuni momenti spiccare tra la folla ha conseguenze un po’ più profonde. Dal commento della persona a caso che sa chi sei al lavoro anche se tu non la conosci, alla cassiera che dice con nonchalance di vederti passare ogni venerdì alla stessa ora, al viscido che sorprendi a seguirti al supermercato, ho realizzato quanto in fondo la possibilità di essere anonimi e passare inosservati aggiunga alla nostra percezione di sicurezza.
Sarebbe ingiusto attribuire questo desiderio di omologazione solo agli stranieri – che tutto sommato, consapevoli delle loro innegabili differenze, nella maggior parte dei casi hanno la libertà di scegliere quali aspetti di sé preservare e quali attenuare o condividere esclusivamente con un gruppo selezionato di persone – l’ansia di omologarsi è profondamente radicata nella società Giapponese, molto più di quel che potessi prevedere.
Il detto “in Rome do what Romans do” riappare come una specie di mantra ogni volta che si discutono problemi di integrazione. Dal mio punto di vista l’estensione del significato che vada attribuito a questa frase qui è decisamente sopravvalutata, ma la mia visione è certamente viziata dalla componente individualista che contraddistingue la nostra cultura.
Voglio darvi un esempio dell’estensione che la necessità di omologarsi ha qui: all’inizio della pandemia il governo ha chiuso le scuole e limitato gli orari di apertura delle attività commerciali, installato un sistema di contributi per quei negozi e ristoranti che avessero scelto di non aprire o limitare gli orari, richiesto alle aziende di mettere il personale in telelavoro dove possibile e chiesto collaborazione alla popolazione per contenere i contagi.
Ma non c’è mai stato obbligo, non c’è mai stato un impedimento legale al movimento, solo una massiccia pressione sociale, tale da tenere di fatto tutti a casa salvo reale necessità. Ora con questo non voglio dire che non ci fossero scettici o persone che non se ne fregassero altamente dei consigli del governo.
Quello che non c’era erano persona desiderose di essere additate come la pecora nera: tutti fanno quel che dice il governo, quindi anche se non c’è una vera legge che mi impedisca di fare quello che voglio non lo faccio perché sarei l’unico.
E questo ha retto per più di un anno, ma quando le restrizioni si sono allentate e poi di nuovo serrate molte persone hanno iniziato a non collaborare più e questo ha dato il via libera a tutti quelli che in fine dei conti erano scettici fin dall’inizio.
Per darvi un altro esempio su un argomento meno conteso, una volta una conoscente mi stava parlando della casa dove si era trasferita e di come la avessero scelta per la grande terrazza. Io ho commentato ‘ma è fantastico, così in estate potete organizzare delle cene fuori!’ e lei mi ha risposto ‘sì vorremmo farlo, ma nessuno dei vicini fa cene fuori quindi anche noi non le facciamo’.
Questa affermazione manifesta due delle cose più difficili, a mio avviso, con cui avere a che fare nella società giapponese: la pressione sociale che forza verso l’omologazione (di cui ho appena parlato) è la tendenza a mantenere l’armonia a tutti i costi. Nessuno fa cene e se io le facessi qualcuno ne potrebbe essere infastidito e protestare, quindi per evitare il conflitto io mi privo di queto piccolo piacere, nonostante fosse una delle ragioni per cui avevo scelto quella casa.
Evitare proteste, evitare il conflitto, evitare problemi. Molto del non-sense di cui a volte i giapponesi stessi si lamentano si basa su questa tendenza, ma anche quelli che se ne lamentano a volte hanno una percezione fatalistica di quello che li affligge.
Protestare significa esporsi, dare la propria opinione potrebbe offendere qualcuno, il conflitto va evitato a tutti i costi piuttosto che gestito come una naturale parte delle interazioni umane. Da questo nasce una tendenza generale a non esprimere le proprie opinioni, discussioni su temi controversi come politica, religione e denaro sono giudicate di cattivo gusto.
Ovviamente questo non vale per tutti e ci sono meravigliose eccezioni, inoltre nelle nuove generazioni sta crescendo la volontà di essere più aperti e diretti, ma questo non significa che non ci siano ancora delle difficoltà in questo senso.
Non mi permetterei mai di chiamare questa tendenza un problema per la mera differenza con la società occidentale di cui faccio parte, mi azzardo solo perché questo è individuato come un problema dai giapponesi stessi.
Ci sono indubbiamente molti vantaggi nel mantenere una società armoniosa, ma se da un lato crea delle difficoltà a loro, ne crea di enormi a me!
Partendo dal numero impressionante di volte che mi è stato detto “please try to understand” ogni volta che chiedevo delle spiegazioni, alle volte che non c’è staff che parla inglese e mi dicono di aspettare sperando che mi stufi e vada via invece di ammetter che non possono assistermi, alla volta che mi hanno spudoratamente mentito sulla presunta illegalità del farmi firmare i documenti per richiedere una carta di credito se non avessi dimostrato di avere sufficiente dimestichezza col giapponese senza interprete.
E’ meglio evitare i problemi in qualsiasi modo. Ma i problemi ci sono eccome e vengono espressi in modo anche brutale quando c’è la garanzia di anonimato, l’unico modo di ottenere un largo numero di opinioni espresse in totale onestà che a volte dà spazio anche ad attacchi diretti a persone o categorie.
Quando mi sono trasferita qui, un po’ mi aspettavo la mancanza di flessibilità, e tutto sommato quando si tratta di banche e uffici pubblici credo che la fermezza di alcune regole si riconduca al discorso dell’evitare favoritismi e proteste, ma alcune volte ci si trova in situazioni che per noi sono paradossali.
E’ impossibile andare in pasticceria e dire ‘faccia lei’, ma che sei scema? Poco importa se tu non conosci il prodotto, non puoi leggere le etichette etc. Puoi chiedere che cosa consigliano ma poi devi indicare quantità precise di ogni pezzo o è la fine.
Quando è venuta a trovarmi la mia famiglia (prima della fine del mondo, nel 2019) siamo andati in un ristorante di ramen. Di solito in questi posti paghi fuori o all’ingresso ad una macchinetta e poi consegni le ricevutine al cuoco indicando lo spessore dei noodles che vuoi, cosi i cuochi non devono toccare i soldi.
Ovviamente avevo io i biglietti, quindi li ho consegnati tutti insieme e il tipo mi fa “Ma quale ramen è per quale persona?’ (purtroppo erano di due tipi diversi, mannaggia a me!). Io gli dico che è uguale, di fare a caso… Errore. Panico! Alla fine lo vedo talmente perso che riprendo i biglietti e li distribuisco io sul bancone uno di fronte a ciascuna (a caso). Allarme rientrato, abbiamo mangiato.
Questo è veramente una sciocchezza, una cosa che per noì è buffa, ma questa avversione al rischio (fosse anche di darti un ramen a caso come gli hai chiesto e poi tu non sei contento) può rivelarsi un po’seccante e crearti degli ostacoli veramente evitabili.
Questa avversione al rischio è radicata nella società stessa con lo stato giapponese che è definito ‘the nanny’ state. Con un sistema di ipercautela, un fiorire di annunci ad ogni punto anche solo vagamente pericoloso, continui incitamenti alla prudenza ed in generale la tendenza ad eliminare qualsiasi potenziale fonte di rischio, in ogni ambito, laddove possibile.
Ho l’impressione che più che volontà di tutelare i cittadini a volte questo atteggiamento dimostri sfiducia nei loro confronti. Piuttosto che punire un comportamento aberrante preferiscono eliminare la possibilità che quel comportamento avvenga, anche se si tratta ovviamente di una eccezione, non della regola.
Il risultato è che rendono la vita più complicata a tutti e la gente si vede costretta ad aggirare le regole o ad ignorarle proprio laddove possibile. Perché scusarsi dopo, è più semplice che fare come verrebbe richiesto.
Questi credo siano gli elementi di shock culturale più profondi con cui ho dovuto fare i conti finora. Ovviamente necessiterebbero di ulteriore approfondimento e inserimento di corollari di vario genere, ma la discussione sarebbe infinita.
Credo che la condizione di expat ci ponga in qualche modo in una specie di piano intermedio tra le due società di cui facciamo parte e ci doni la possibilità unica di guardare le cose super partes per un breve momento, prima di scivolare inesorabilmente verso l’una o l’altra dimensione a seconda della direzione che decidiamo di seguire nel nostro percorso di integrazione.
Marilena, Giappone
Ho iniziato a leggere il tuo post per caso e l’ho letto tutto d’un fiato.
Penso ad un viaggio che conta con una fermata in Giappone e il tuo racconto mi ha certamente aiutato a vedere questo popolo con altri occhi. Grazie, il tuo modo di scrivere è… coinvolgente.
Oh, grazie mille! Mi fa piacere averti dato una prospettiva un po’ diversa. Sono sicura che il tuo viaggio sarà meraviglioso e il Giappone è un posto pieno di cultura e di natura curata e amata.