Qual è il filo che mi lega al romanzo di Eshkol Nevo “Tre piani”?
Semplicemente un nome, un ricordo: Marcello, il mio nuovo cognato, solo otto anni di conoscenza e frequentazioni a periodi intense, altri sporadiche, un incontro troppo breve, una vita volata via troppo velocemente, divorata dal Mostro.
Me lo ricordo bene quel giorno in ospedale, una presenza sotto il lenzuolo, un lungo mucchietto d’ossa che non sembravi più tu. Mi rifiutavo di pensarti così. Poi ho visto il tuo viso, sofferente, sguardo stanco ma attento, mente lucidissima, tu che facevi fatica solo a respirare, mi regalasti una piccola parte di quelle esigue energie che ti rimanevano, e parlammo della passione che avevamo in comune: la letteratura e la narrativa.
Sapevi della mia passione per la cultura ebraica, ne parlavamo quando capitava. Anche tu un grande lettore, ci scambiavamo pareri e ci davamo consigli. Mi avvicinai al tuo letto, il Covid imperava là fuori, ma munita di mascherina mi permisero una veloce visita. Ti carezzai la barba ispida- non ti avevo mai visto con la barba- i tuoi bei folti capelli imbianchiti come se un fotografo avesse avuto l’ingrato compito di scolorare poco a poco il tuo corpo fino al bianco e nero.
Mi chiedesti “cosa leggi Elisabetta?” e io sorridendoti dietro quella maledetta mascherina ti risposi “al solito, mi arrampico sul sacro Monte del Tempio. Sto leggendo l’ultimo di Chaim Potok che mi mancava, una cara amica mi ha regalato ‘Il Libro delle Luci. Bello”.
Lentamente stringesti gli occhi e riconobbi un sorriso, poi mi dicesti “ma Eshkol Nevo? Hai mai letto Eshkol Nevo?”- “No, non ancora. Cosa mi consigli?”- “l’ultimo che ho letto di suo, “Tre Piani”, e poi anche ti consiglierei “La Simmetria dei Desideri”. Prova a leggerli e poi mi dirai…”. Quel “poi mi dirai” mi si bloccó in gola in un grumo di pianto senza uscita, e spesso ancora lo sento. Marcello si spense qualche mese dopo. Mi accorgo che mi manca. Ho voluto cercarlo in quei romanzi.
Ho letto e trovato “Tre piani” un romanzo dalla scrittura semplice, scorrevole, ma dietro questa apparente semplicità si scopre un mondo brulicante di umanità, storie, personaggi e interessanti riflessioni.
In un condominio alla periferia di Tel Aviv, non lussuoso nè popolare, diciamo borghese, o ‘normale’ come tanti altri, la quiete regna sovrana, ma solo apparentemente, perché dietro ogni porta le vite di ogni famiglia non sono per niente quiete. Il romanzo è suddiviso in tre parti, tre storie diverse per tre piani, storie diverse tra loro ma in qualche modo “comunicanti”.
La cosa interessante di questo romanzo è che per entrarci ho dovuto considerare la palazzina come un intero organismo vivente, non scindibile, ogni piano necessario per la comprensione del tutto.
La prefazione stessa del romanzo ci dà un suggerimento prezioso: “tre, come le storie raccontate, tre come le diverse istanze freudiane delle personalità: l’Es, l’Io, il Super-Io”.
Fin da ragazzina mi ha sempre affascinato la psicanalisi, al punto di desiderare nei miei sogni ad occhi aperti di entrare in uno studio e sdraiarmi nel lettino, e lasciare che mani invisibili si infilassero dentro la mia testa, mi frugassero il cervello alla ricerca di matasse ingarbugliate e irrisolte, e ne tirassero fuori il liquido scuro che mi procurava quel sottile dolore che accompagnava le mie giornate, puntuale e fedele, un sottofondo di melodia malinconica ma stonata. Alla fine poi, “nel mezzo del cammin di nostra vita” finalmente ci sono entrata davvero in quello studio, ma questa è un’altra storia.
Accettando quindi il consiglio, ho deciso di leggere con quella chiave di lettura offerta al lettore. Ho cercato di ricordare i rudimenti del pensiero di Sigmund Freud che ebbe indubbiamente il merito di elaborare un modello per spiegare il funzionamento della psiche umana, suddividendola come già accennato prima, nelle “tre istanze”, o componenti principali. Dove non ho ricordato, ho cercato chiarimenti in un vecchio testo che ho in casa.
E qui arriviamo alla sua “Metafora dell’Iceberg” sulla psiche:
l’ES ovvero i suoi impulsi, l’IO che rappresenta la mediazione, il SUPER IO che è espressione della morale e delle regole.
Ora torniamo ai nostri Tre piani.
Al primo piano vive una coppia di giovani genitori, Arnon e Aylet che hanno una bambina, Ofri, che spesso affidano alle cure di due vicini anziani e gentili, Hermann e Ruth, che si prestano volentieri a fare da babysitters. Un fatto spezza questa calma routine; Hermann, il quale comincia a mostrare i primi sintomi della devastante malattia quale è l’Alzheimer, porta la bimba fuori casa con sé per un intero pomeriggio, passato a camminare e poi in un giardino. A quel punto si scatena la furia di Arnon, che vede in questo gesto qualcosa di sporco, di illecito, di turpe: sopetta che Hermann abbia molestato o abusato della sua bambina. Questo lo porterà ad una rapida quanto crudele discesa verso l’odio e il bisogno di vendetta, alimentato e offertogli anche dalle continue provocazioni di una adolescente, nipote dell’anziana coppia, infatuata di lui, con la quale consumerà un rapporto sessuale che avrà le ovvie conseguenze legali.
Il primo piano rappresenta l’ES: Arnon è l’incarnazione della parte più profonda e nascosta che risiede in noi, costituita da un insieme di istinti e pulsioni ataviche che in modo irrazionale, senza regole e senza morale, lo spinge ad agire di pancia, consumando lui stesso quelle pulsioni che trovava deprecabili.
Al secondo piano vive Hani, madre di due bambini, col marito Assaf sempre all’estero per lavoro. La sua è una battaglia contro la solitudine, contro la frustrazione di non sentirsi realizzata nella vita, sempre in attesa del marito che comunque non riesce a colmare il vuoto della sua esistenza. Oltre la solitudine Hani ha anche un altro nemico: lo spettro della follía. Teme di esserne affetta, come la madre, ricoverata in un istituto psichiatrico. Fa cose strane Hani, parla con un barbagianni immaginario, trova la forza di disubbidire al marito ospitando Evatar, il cognato truffaldino mentre il marito è all’estero, riuscendo così a riempire un po’ la sua solitudine. E si sente di nuovo viva, con un uomo per casa, con cui puó parlare, si sente desiderata, una donna con i suoi sogni mai uccisi. Ma non riesce a rilassarsi appieno, perché viene assalita dal terrore che potrebbe tutto essere frutto della sua immaginazione, parto della sua presunta incipiente follía.
Il secondo piano rappresenta l’IO:
Hani è una madre sola, chiamata “la vedova”, che conduce una vita sempre più arida, incarna quella parte di noi che esprime in maniera quasi sempre consapevole la sua personalitá, che poi è quella con la quale si presenta al mondo. Hani è la prudenza, la riflessione, l’analisi, ma è anche il prepotente vitale bisogno di amore, di riconoscimento e gratificazione sia sociale che familiare. Simboleggia la mediazione inconscia tra censura e istinto. Ma rimane l’eterno IO incastrato fra le altre due istanze, costretto a mediare, spesso a sopportare e soccombere per cercare un equilibrio.
Il terzo piano è abitato da Dovra, un giudice in pensione, vedova di un marito anche lui giudice. Dovra vive sola, sente il bisogno di comunicare col marito defunto e trova un modo bizzarro per farlo: rimettere in funzione una vecchia segreteria telefonica appartenuta al marito Michael, lasciandogli messaggi per raccontargli le sue giornate e i suoi pensieri.
Da qui comincia a venire a galla il passato, l’analisi del loro ruolo di genitori rigidi, controllori della vita del figlio Arad, specialmente il padre, d’una inflessibilitá quasi malata, anaffettiva, ‘prima le regole, poi l’amore’.
Ma non si fa in tempo a darlo questo amore, perché il figlio ribelle, dopo un episodio gravissimo che lo porterá in tribunale, si ritroverá da solo senza il supporto dei genitori, e capirá che solo fuggendo lontano, abbandonando la sua casa e recidendo tutti i legami riuscirá a salvarsi e ricominciare una nuova vita.
E lo fa, anche perché Dovra è stata messa al muro dall’aut aut del marito: scegli, o lui o me”. Lei sceglie il marito, lasciando il figlio al suo destino. Ma non rinuncerá mai veramente al suo amore materno, e cercherá invano di ricreare quel legame spezzato che il figlio implacabilmente rifiuterá, finché…
… E qui arriva un qualcosa di struggente che fa tirare un sospiro di sollievo: Dovra tramite uno strano calamitante personaggio conosciuto durante un’occupazione di protesta studentesca alla quale lei si unisce dando il suo contributo in campo legale, più che altro per avere una parvenza di vita al di fuori delle mura di casa, ritrova il figlio. Lui la rifiuta tenacemente, ma lei, da madre, non si perderá d’animo e si aggrapperá con tenacia a questa ultima possibilitá di riscatto, di perdono, con l’ammissione di avere sbagliato, messa in passato davanti ad una scelta che nessuno al mondo ha diritto di pretendere. Dará il suo amore allora, finalmente restituito, al figlio, alla nuora e nipotino, piccolo esserino bisognoso di cure sapienti, che fará da collante per un futuro possibile. Pentimento e Perdono.
Il terzo piano rappresenta il Super Io: Dovra e il marito sono i perbenisti, i giudicanti, quelli che seguono in modo rigido le regole sociali e morali per evitare che l’Es prenda il sopravvento.
Nel romanzo è presente un altro elemento che mi ha colpito: la capacitá dello scrittore di usare uno stile diverso per ogni racconto. Ed è rimarchevole anche il mezzo che usano i protagonisti dei tre piani per comunicare con il loro interlocutore, sia esso vivo, morto, o solo un destinatario di lettere senza risposta: Dovra comunica con la segreteria telefonica, Arnon racconta in una specie di monologo le sue vicende all’amico scrittore, Hani scrive lettere ad un’amica lontana. Il parlare, lo scrivere, il registrare la voce è un raccontarsi che li aiuta a capire meglio sé stessi e di conseguenza aprirsi e capire meglio gli altri.
Per finire, pur nella loro diversitá tutte e tre le famiglie, quindi le storie, hanno comunque un elemento in comune: il tema della genitorialità, dell’essere figli, del perdersi e ritrovarsi, dell’amore. E la paternitá ha un peso notevole, paternitá quasi animalesca di chi vuole proteggere ad ogni costo la propria prole, paternitá assente per motivi di lavoro, paternitá castrante per troppo moralismo.
Eshkol Nevo é riuscito a descrivere con vivida intuizione e malcelato sarcasmo gli effetti della psiche umana sulle nostre vite e comportamenti, attraverso questa impietosa allegoria che mette a nudo i fallimenti e le psicosi della apparente calma borghese di tre famiglie come tante.
Citando Nevo:
«I tre piani dell’anima non esistono dentro di noi. Niente affatto! Esistono nello spazio tra noi e l’altro, nella distanza tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra storia. E se non c’è nessuno ad ascoltare allora non c’è nemmeno la storia. […] L’importante è parlare con qualcuno. Altrimenti, tutti soli, non sappiamo nemmeno a che piano ci troviamo, siamo condannati a brancolare disperati nel buio, nell’atrio, in cerca del pulsante della luce».
Elisabetta Acri (Liz in Dubai)
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Cercherò questo libro, ma mi chiedo se sarà affascinante quanto lo è stata la tua recensione. Davvero complimenti, scrivi in maniera incredibile!