Sognatrice e appassionata di viaggi, sono sempre stata convinta che esplorare nuovi orizzonti aiuti ad acquisire maggior consapevolezza di sé intesa come conoscenza della dimensione più profonda del proprio essere.
Viaggiare apre la mente, ti pone in contatto con te stesso e con la realtà circostante e solo una mente aperta e reattiva alle idee nuove e diverse è ben predisposta all’apprendimento, all’osservazione e al cambiamento.
Alla soglia dei quarant’anni ho sperimentato in prima persona cosa significa avere una mente ricettiva al cambiamento: non un semplice viaggio alle Hawaii ma un trasferimento nel bel mezzo del Pacifico.
Come alcune di voi, la mia scelta è stata dettata da esigenze familiari: sono partita nell’ottobre 2018 con mio figlio di due anni per seguire mio marito, ingegnere trasferito su un progetto lavorativo ad Honolulu per la durata di quello che inizialmente doveva essere un anno.
Dopo un periodo di iniziale assestamento, in cui non sono mancate tempeste emotive e picchi nostalgici, la mia decisione di radicale cambiamento per amore della famiglia si è rivelata estremamente sorprendente: una grandissima e straordinaria opportunità di crescita personale e formativa.
Ho incontrato persone provenienti da ogni parte del mondo, conosciuto tradizioni e usi locali, ho testato il mio spirito di adattamento e, avendo a disposizione molto tempo libero ho acquisito maggior consapevolezza delle mie capacità, dei miei desideri e delle mie aspettative.
Dopo aver frequentato un corso di inglese grazie al quale ho migliorato le mie competenze linguistiche, mi sono cimentata nell’ esperienza del volontariato nel ruolo di front desk attendant presso l’Hawaii State Art Museum di Honolulu, che mi ha offerto la possibilità di vivere pienamente la città di Honolulu scoprendo ed ammirando la storia e la cultura del popolo hawaiano.
Senza alcun dubbio ad un anno e mezzo dal mio primo atterraggio alle Hawaii, posso affermare che l’esperienza tuttora in corso, rappresenta lo slancio più significativo verso la maturazione della consapevolezza e della conoscenza di me a livelli che mai avrei immaginato di raggiungere.
Al primo atterraggio difatti ne sono seguiti altri. Rientrata in Italia ad ottobre 2019, convinta che l’esperienza ad Honolulu fosse definitivamente conclusa, ho dovuto, dopo qualche mese, rifare le valigie per seguire nuovamente mio marito.
Ma il rientro alle “mie amate” Hawaii non è stato come me lo aspettavo. Giusto il tempo di atterrare, rivedere qualche amica per poi essere risucchiata nel vortice Covid-19.
Sono partita prima che scoppiasse l’epidemia in Italia, prima insomma che le nostre esistenze fossero travolte dal virus. Chi vive all’estero sa bene quanto in questi casi si faccia sentire ancora di più il richiamo di casa.
Abituati ad essere sospesi tra due Paesi e due lingue che spesso utilizziamo nella stessa frase, noi expats abbiamo vissuto diversi momenti dell’epidemia: quello iniziale che ha visto il virus flagellare l’Italia, mietendo numerose vittime e in cui la preoccupazione cresceva in modo esponenziale per i parenti e gli amici, mentre intorno la vita scorreva normalmente. E quello successivo, in cui il virus è arrivato e ha colpito anche il Paese in cui ti trovi ma non ti ha colto impreparato perché ormai hai trascorso l’ultimo periodo (notti insonni) ad informarti sull’epidemia, sui dispositivi di protezione, hai letto di tutto di più in merito ma soprattutto hai ascoltato la voce spezzata dal pianto dei tuoi cari che, increduli e impauriti, ti hanno raccontato quanto stesse accadendo.
Il tuo pensiero è ancora una volta sospeso, vorresti tornare ma ora ad essere sospesi sono i voli stessi e la difficoltà di rientrare in Italia con i confini chiusi ancora una volta ti fa sentire in un limbo tra i due mondi: quello di origine in cui il virus è dilagato e quello che ti ha accolto, in cui i contagi sono minimi (a differenza del resto degli USA) ed il lockdown imposto dalle autorità è più soft di quello in Italia. La voglia di rientrare, apparentemente insensata, che ti assale all’inizio è sicuramente dettata da risvolti psicologici e affettivi, un richiamo della propria terra devastata da un nemico invisibile, un effetto collaterale della condizione di expat o almeno per me è stato così.
Ora che la fase critica sembra superata, ripenso agli ultimi due mesi e all’impronta che hanno lasciato: la pazienza e la perseveranza all’ascolto di me stessa con conseguente rivisitazione dei miei valori e una maggiore consapevolezza che nella vita puoi pianificare ma non controllare.
In fondo, chi intraprende questo tipo di “viaggio” deve abituarsi ad affrontare sfide non previste, convivere con un costante senso di incertezza e imparare a gestire le emozioni dovute ai continui cambiamenti.
A presto!
Annalisa