Mi piacerebbe, in questa giornata in cui si richiama l’attenzione sul tema dell’autismo, cercare di far comprendere a chi leggerà che cosa vuol dire davvero essere autistici. Non dal punto di vista medico ma da quello di una mamma di un quasi tredicenne, Saul, con una forma di autismo molto complessa, che ha cercato e cerca in tutti i modi ogni giorno di venirne a capo, di mediare tra lui e il mondo, tra lui e gli altri. E che ne esce quasi sempre sconfitta, pur vincendo molte battaglie.
Saul è figlio unico, figlio tanto desiderato, non scontato, sofferto dal concepimento e amato follemente dalla prima ecografia.
Saul è figlio solo. Che il sogno del fratellino si è infranto davanti alla diagnosi – mia stavolta – di cancro al seno. Ma Saul sarebbe stato, in un modo tutto suo, in parte almeno comunque solo. La sua condizione lo pone su un piano parallelo a quello delle persone cosiddette “neurotipiche”, di cui è composta la stragrande maggioranza dell’umanità secondo i criteri diagnostici ufficiali, noi che funzioniamo più o meno normalmente – sappiamo tutti che ognuno di noi funziona in modo diverso dall’altro ma comunque riesce a condividere più o meno lo stesso codice comunicativo. Per quanto a volte possiamo sentirci “soli” o crederci “diversi”, non lo siamo comunque mai davvero se riusciamo a comprendere il linguaggio non scritto dell’altro, oltre che il suo linguaggio vocale.
Saul non riesce a comprenderci, anche se in questi anni è sicuramente tanto migliorato. Saul non comprende soprattutto il non detto, il gesto, l’espressione del viso, quello che c’è tra le righe dei rapporti umani, che per noi è evidente ed è un’acquisizione immediata dai primi mesi di vita. E certamente, soprattutto da piccolo non comprendeva i nostri discorsi quando erano tante e veloci le parole.
Questo è l’autismo: essere stranieri in mezzo agli altri. Non riuscire a comprenderli, non perchè si parli una lingua diversa ma perchè si percepisce il mondo in maniera diversa. Perchè i sensi “sentono” in maniera diversa, elaborano in maniera diversa la realtà e questa dis-percezione sensoriale pone inevitabilmente l’autistico su un piano altro, che mai convergerà col nostro, se non perchè noi apriamo loro le braccia e il cuore senza pretendere che loro diventino come noi.
Può sembrare poca cosa percepire il mondo attraverso i sensi in modo alterato ma, credetemi, in un mondo di non-autistici, per loro la vita diventa a tratti insostenibile… Significa tante cose diverse: per Saul a tratti significa la necessità di procurarsi dei rumori forti, a costo di rompere oggetti di vetro; la necessità di togliersi scarpe e indumenti per quanto lo fa impazzire il loro contatto sulla pelle; la necessità di contatto fisico con l’altro, di un abbraccio, di una pacca, a prescindere dalla conoscenza o meno dell’altro; significa soffrire di giramenti di testa ad ogni esperienza che abbia a che fare con altezza, profondità, equilibrio e dover quindi rinunciare a molte cose.
Autismo è spesso non poter spiegare come ci si sente, dover subire il pregiudizio e l’ignoranza e i complessi e la cattiveria degli altri senza poter spiegare, senza potersi difendere.
La condizione autistica è estramamente dolorosa quando significa impossibilità di usare la parola o di spiegarsi in modo adeguato, quando si vive senza una rete familiare o sociale sufficiente a sostenere la persona e la sua famiglia.
Eppure è un privilegio poter frequentare una persona autistica, poterla vivere, respirare, essere amati da lei, riuscire a comprenderla e a mediare per lei in questo bailamme che è la nostra rete intricata di relazioni umane.
Si impara a rallentare il tempo, a cambiare le prospettive, le priorità, a parlare di meno, a dare valore a ciò che ha valore, a prendersi cura dell’altro e a uscirne infinitamente arricchiti.
Provare per credere. L’autismo non è contagioso. E il dolore che nasce spesso dall’incomprensione e dall’isolamento diventa immediatamente gioia e allegria quando cadono le barriere!