Se ne legge e se ne sente di tutti i colori, sul diventare madri e sul crescere i propri figli.
La rete in particolare sembra essersi addossata negli ultimi tempi il ruolo di diffondere “modelli” (teorie, correnti di pensiero educativo, ma anche semplici immagini) di ogni genere e corrente, purtroppo troppo spesso inapplicabili alla propria situazione, causando tra le madri solo estremo smarrimento e confusione.
Nel mio articolo “Un viaggio chiamato trilinguismo”, pubblicato circa 9 mesi fa, narro di una delle prime importanti prove che ho vissuto come madre e a un certo punto scrivo:
“(…)Fare le madri mica è un lavoro sempre facile. Ti senti dentro delle cose, ma chissà per che coincidenza fortuita il 90% del tuo intorno non capisce quello che stai veramente provando. (…)”
Vivo questa situazione spesso, nel mio piccolo.
Da fuori sembro mare calmo, ma dentro è come si muovesse una tempesta.
Quella tempesta, quel muoversi di membra quando mi si rivolgono queste frasi:
“Ma che bravo bambino/ ma che calma questa bimba/ ti vedo bene/ sembra che non tu non abbia nemmeno partorito/ come ti vedo magra/ gonfia/ stanca/ prendi qualcosa?/ allatti?/ dorme la notte?/ ma aspetti di nuovo?”
Sono tutti appunti e domande apparentemente innocui, così a leggerli. Molti, lo riconosco, uscivano dalla mia stessa bocca quando incontravo amiche in dolce attesa o appena diventate mamme.
Poi, quando è toccato a me, di sentirmele dire, ho cominciato a fare come facevano le mie amiche: ascoltare, sorridere, dare risposte di convenienza. E poi sí, ritirarsi con gentilezza, chiudere la porta di casa e aspettare che lo show cominci…Leonardo che sfoga i capricci repressi di tutto un giorno di asilo. Sofia, svegliata dal fratello e dall’aria domestica, che inizia a piangere ininterrottamente, tuo marito – nel caos più totale- che chiude il computer ed esce a correre; allora viene il momento in cui decidi di lasciare un po’ tutti alle loro cose e, con le ultime forze della giornata, ti trascini in camera da letto per cambiare la maglia sporca di sudore e rigurgiti.
Ed è lì che improvvisamente succede: ti guardi allo specchio. Sei lì, tu e lui, per pochi, interminabili secondi e le gambe ti vengono un po’ a mancare. Io e la nuda verità; quelle voci incontrate riprendono ad incalzare:
“ti vedo bene/ sembra che non tu non abbia nemmeno partorito/ come ti vedo magra/ gonfia/ stanca/ prendi qualcosa?/ allatti?/ dorme la notte?/ ma aspetti di nuovo?”
Quando aspettavo, ci eravamo fatti più o meno l’occhiolino, io e lui. Io in casa di specchi ne ho tanti, e non per vanità. Se leggete un po’ in giro saprete che gli specchi aiutano a rendere gli spazi più grandi e più luminosi, o addirittura a fregare gli spiriti maligni, come sostiene il Feng Shui. Poi, quando la pancia è esplosa, specchiarmi è diventato un rito di piacere, ogni mattina ed ogni sera. Le mie nuove rotondità erano qualcosa che, paradossalmente, avevano mascherato tutto quello che del mio corpo ho sempre criticato: la pancia poco tonica, i fianchi sproporzionati, le gambe provate da tre anni di quasi inesistente attività fisica. Specchiarmi era un momento di serenità pura, di riconciliazione con l’universo, in cui mi sentivo onorata e grata di come tutte le mie membra e tessuti si stessero modificando per accogliere quella che sarebbe stata una nuova vita.
Poi nacque Lei. E il mio fuoco di attenzione si spostò come il cursore di posizione reale di Google Maps su un’altra traiettoria. Non so quando sia successo, nè perché, ma il mio corpo si è di colpo svuotato non solo di una vita, ma anche di miriadi di attenzioni. Tutto si è convertito in funzione di Lei, in risposta ad un istinto primordiale. Niente più lunghi silenziosi minuti a osservarsi di profilo allo specchio, a far scorrere le istantanee sul cellulare, a tastare la propria pancia in lungo e in largo per sentirsi, per sentirla crescere in avanti e spingere verso la Vita.
In un certo senso è come se fossero arrivati la Sua primavera e il Mio autunno, come se il tempo avesse deciso di compiere un irriversibile cambio di marcia che, nonostante fosse in qualche modo “desiderato”, a pelle nuda fatica ancora ad essere digerito.
Vivere questa metamorfosi in un paese come la Germania è stata e sta essendo un’esperienza singolare. Dopo vari anni in questo Paese ho una visione sicuramente più critica che agli inizi ma se c’è qualcosa che veramente invidio loro (e da cui sto ancora cercando di imparare!) è la loro disinibizione nel mostrare il proprio corpo. Un corpo che ai nostri occhi può sembrare a volte ben distante dai canoni di bellezza attuali: segnato dal tempo, da fatiche, da diete, da traumi e incidenti, da gravidanze ed operazioni. Un corpo che viene naturalmente mostrato nella sua mera caducità sulle rive di fiumi e laghi, nei parchi pubblici, ma anche in riunioni (come ultimamente mi è capitato) durante l’orario di lavoro e nel tempo libero.
Vi faccio un esempio. Una settimana fa sono stata ad una festa di compleanno di un’amica di Leonardo. “Badmöglichkeiten für Kleine und Grösse1” mi aveva scritto Clara, la madre della festeggiata, un giorno prima dal suo numero WhatsApp. Avevo letto in velocità il messaggio ma, chissà per quale atteggiamento istintivo, avevo evitato di mettere il costume sotto i vestiti:
Io? In costume? A pochi mesi dal parto e soprattutto davanti a vari visi sconosciuti?
Mai e poi mai.
Eh si. Perché, nonostante tutto quello che si vuole fare credere, il corpo femminile è qualcosa in costante evoluzione. Nella forma rimani piu’ o meno quella di sempre, ma il desiderio di un figlio, quando arriva, accelera trasformazioni ineludibili, dentro e fuori. Almeno così mi è successo.
Con il senno di adesso me lo dico spesso: deve essere un atto in un qualche modo incosciente, diventare madri. Perché se sapessimo in anticipo tutto quello che attende il nostro fisico penso che, specialmente di questi tempi, non ci lanceremmo mai da quel trampolino. Eppure, vivendo qui, sembra essere possibile anche il rovescio della medaglia: essere in grado di accettare lo scorrere del tempo. Me lo si dimostra ogni santa estate. Già ad alcune escursioni di lavoro avevo notato come gran parte dei miei colleghi tedeschi non si facesse alcun problema nel farsi vedere in costume davanti a tutti, soprattutto ai capi.
A questa festa di compleanno invece i corpi non erano di colleghi, ma spesso, per l’appunto, di madri. Corpi vissuti, come il mio o forse anche di più, corpi liberi e ripieni di cicatrici lasciate da parti, ozio, eventi naturali ed accidentali. Corpi mostrati senza complessi né scopi esibizionistici, ben lontani dal mio immotivato e obsoleto “ideale di decenza”, ma comunque vivi, operativi, presenti, funzionanti. Corpi fieri della loro verità.
Sembra che il pudore tedesco riguardi spesso altri temi rispetto all’esibizione del proprio corpo. Nonostante tengano tantissimo al suo mantenimento praticando sport indoor e outdoor, il fine ultimo sembra quello di non rendere il fisico umano qualcosa di fine a se stesso, bensì parte di un ciclo inevitabile. Non c’è vergogna nel far vedere sederi e gambe grosse zeppi di cellulite, pance flaccide e fianchi larghi. Si può convivere con la propria normalità, si può vederla senza criticarla. E soprattutto: si può accettare di essere diventati qualcosa di diverso, si può rieducarsi a rivedersi.
Penso di poter imparare ancora qualcosa di grande da questo Paese e, anche se probabilmente non riuscirò mai a mettermi in costume davanti ai colleghi, proverò alla prossima festa ad infilarmi senza paure il costume nello zaino e a confondermi tra quella varietà e normalità che ci rende, paradossalmente, così unici. Dopo tutto, di qualcosa sono certa: quella terribile insicurezza si ferma tra me, la mia testa e il mio specchio; riuscirò a farvi fronte e a superare anche quest’anno quel brutto termine da noi inventato, la famigerata “prova costume”? Riuscirò a fare almeno per un momento pace con il mio corpo che cambia?
Alessandra – Monaco di Baviera