Espatrio Reinventarsi

Di 40 anni e nuova vita.

nuova vita
Written by Guest

Il giorno in cui ho compiuto 40 anni c’era la torta, c’erano i regali e gli invitati, i baci e gli abbracci, il rossetto rosso e lo spumante.

Ma poca luce nei miei occhi. 

Avevo tutte quelle cose che la società usa per darti una misura di quanto ti sei data da fare fino a quel momento: una laurea, un buon lavoro, un marito, due figli, un mutuo. Ma quel sentirmi sistemata, arrivata, finita, mi faceva impazzire. L’idea che quella sarebbe stata la mia vita identica e precisa fino a che non avrei tirato le cuoia mi faceva uscire di testa.

Ricordo ancora quando un’idea mi si è accesa in testa. Un’idea pazza, che bruciava e mi stringeva lo stomaco. Sono scesa di corsa al piano di sotto, e ho detto a Lui a bruciapelo: “Ma se mandassi il curriculum all’estero, che dici, si potrebbe fare?”

“Manda manda!”

Da quelle due parole sono passati cinque anni, alcuni curriculum inviati, una serie di colloqui, una firma digitale su un contratto, lacrime, brindisi, saluti, abbracci, un trasloco internazionale, una nuova vita a Londra, un nuovo ufficio di prestigio, i figli che iniziano a parlare inglese con un accento che io non avrò mai.

Da quelle due parole sono passati anche un’aggressione per strada, un intervento d’urgenza a Londra non fatto con urgenza, un altro intervento a Roma per correggere l’intervento di Londra. Dolore, delusione, rabbia, e la sensazione che “a Roma non mi sarebbe mai successo”.

Sono passati momenti di crisi, di nostalgia lancinante di casa una volta passata l’euforia iniziale, di solitudine. Sono passati dodici lunghissimi mesi di pandemia e lockdown vari, che ti rode aver perso un anno di Londra, ma anche essere bloccati in un Paese diverso da quello dove si trovano tutte le persone a te più care.

Tutto questo perché la vita non è solo bianca o nera, e la vita da expat non fa eccezione, a differenza di quello che a volte ci vogliono far credere.

Quello che però nella vita da expat non manca mai è la scoperta che non esiste un solo modo di fare le cose, e che a volte certi modi di fare prima estranei ci piacciono pure di più. La consapevolezza che aprirsi a una nuova cultura non sottrae nulla alla cultura che ci ha nutriti e cullati, ma che anzi le regala nuove sfaccettature. La certezza che quello che abbiamo lasciato non lo abbiamo mai lasciato veramente, perché è dentro di noi e ce lo portiamo dietro. 

Sono capace di commuovermi quando i miei figli mi raccontano della compagna di banco che ha raccontato cosa le piace fare quando va a trovare i parenti in Nigeria. Dell’amico di madre giapponese che gli ha offerto alghe da sushi come snack ed erano buonissime. Della lezione a scuola sull’orgoglio LGBT+ e di quella sulla religione sikh. Della compagna con il velo e del compagno con la kippah. Tutto totalmente e meravigliosamente normale.

Io mi commuovo, e loro mi prendono per matta. Ma va bene così, perché l’opportunità di abbracciare la diversità è la cosa più bella che potessi regalare ai miei figli.

Rita, Inghilterra

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