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London Bridge is down: di monarchie, razzismo istituzionalizzato e fiori

Written by Elisa, Abu Dhabi

La notizia, per noi che l’informazione la facciamo girare, era arrivata nel primo pomeriggio. Qualche ora per preparare gli articoli, i servizi, una persona presso ogni bandiera da abbassare a mezz’asta, non appena la BBC avesse suonato per l’ultima volta per le prossime tre generazioni God Save The Queen. Qualche ora per lasciare il tempo alla famiglia di riunirsi in privato, prima che la notizia venisse data al Paese e al mondo.

Il tam tam ufficioso è diverso, trafelato, scomposto. La chat di whatsapp inizia a riempirsi, io la scorro dal divano dell’ufficio di Parigi. Davanti a me i doppi vetri della finestra di un sottotetto haussmaniano incorniciano la Torre Eiffel che si staglia netta nel cielo plumbeo, sovrastando centinaia di migliaia di persone che proseguono ignare la loro giornata. E penso a noi, poche migliaia di persone che in questo momento stiamo assistendo in anteprima al farsi di un pezzo della storia, come a isole sparse aggrappate ai telefoni professionali come ad un salvagente. 

La notizia esplode mentre, baguette senza glutine in una mano e cinese da asporto nell’altra, mi siedo per un ultimo picnic estivo al Jardin du Luxembourg. “La Reine est morte!” La Reine, the Queen, nessun bisogno di specificare quale, perché c’era solo lei, alla guida di una delle unioni commerciali più antiche del mondo. Regina non solo del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, ma di altri 18 Stati inclusi Canada e Australia. La prima donna ad avere ereditato il trono per discendenza e ad essersi anche sposata, una scelta che ha messo in difficolta il protocollo inglese e che ha obbligato suo marito Filippo ad accettare il titolo di Principe per non lasciare alcun dubbio su chi fosse la figura importante tra i due.

Penso a questo squilibrio di potere così inusuale per una coppia sposatasi negli anni 40 mentre l’Eurostar mi riporta verso St Pancras: proprio la regina aveva inaugurato questa tratta nel maggio del 1994, quando io non avevo nemmeno un anno di vita, e nessuna idea che un giorno quel treno avrebbe collegato due città che chiamo casa.

Nel giro di poche ore, migliaia di siti si sono tinti di nero: chiunque faccia business nel Regno Unito esprime solidarietà alla famiglia reale e stima verso la Regina che ci ha lasciati. Un po’ tutti, dai supermercati ai casinò, passando per i siti di prodotti di bellezza (i post più assurdi li trovate raccolti qui). Un po’ tutti tranne le comunità immigrate, che alzano il dito ricordando che Elisabetta ha contribuito tramite il suo ruolo all’oppressione dei loro antenati e che celebrarne i successi e la leadership rappresenta uno schiaffo in faccia a tutti coloro che la vita l’hanno persa a causa del suo regime.

Non rischiamo di considerare dibattito attorno alla figura della regina e al suo ruolo di colonizzatrice come un fenomeno contemporaneo: questa conversazione ci permette di misurare il battito cardiaco dell’istituzione monarchia in un momento storico in cui Brexit, i desideri di indipendenza di Galles, Scozia e Irlanda del Nord e i recenti scandali attorno alla famiglia reale rendono questa istituzione più fragile che mai.

La Regina è morta, lunga vita a re Carlo III. La stampa italiana ha spesso dipinto Carlo come un figlio di mamma con poca spina dorsale e quindi meno capace di attirare le simpatie dei sudditi: un’immagine tanto semplicistica quanto falsa. In realtà, sono proprio le opinioni politiche di Carlo, emerse nel corso degli anni, a renderlo una figura meno neutra della madre e quindi più soggetta ad antipatie. Ereditare il trono a 73 anni, dopo che la sua intera vita è stata scrutinata dai tabloid, lo ha privato di quell’aura di mistero di cui sua madre si è avvolta e avvalsa per mantenere un’immagine di sovrana super partes. Un’aura che ha contribuito a coprire la sua connessione con i crimini che i suoi governi hanno commesso, e l’ingiustizia razziale e sociale che la sua istituzione rappresenta.

Non ha scelto di nascere lì, dicono in molti. Lo stesso si può dire dei bambini che hanno lavorato come schiavi nelle piantagioni keniote sotto il suo governo, o dei bambini nativi nordamericani che sono stati indottrinati nelle scuole statali canadesi e privati delle loro culture di origine.

Ha fatto anche cose buone. Come tanti leader di cui oggi rabbrividiamo al solo sentirne il nome. E se anche come individuo ha avuto il pregio di portare innovazione ad un’istituzione storicamente maschilista, e di essersi presa alcune libertà (come quella di abbassare la bandiera a mezz’asta alla morte di Diana) per far valere la sua opinione, questo non pulisce una goccia del sangue che è stato versato per soffocare i moti indipendentisti nel Commonwealth, né una sterlina di quelle utilizzate per pagare il risarcimento a chi ha accusato il principe Andrew di pedofilia.

E per quanto comprensibili, i sentimenti contrastanti o simpatizzanti dei cittadini europei bianchi che della monarchia non hanno sofferto, vanno processati aprendo le orecchie ed il cuore alle posizioni nette e addolorate di chi ha visto il lato opprimente della monarchia di cui Elisabetta era rappresentante.

Io non capisco il sentimentalismo monarchico: già all’epoca del matrimonio di Harry e Meghan guardavo ai colleghi inglesi con un misto di curiosità e superiorità. Cosa ha fatto questa gente per voi, è quello che mi chiedo sempre, sapendo soprattutto quanta fatica e notti insonni si facciano invece i super criticati membri del Parlamento o degli uffici diplomatici, dei ministeri Esteri e della Difesa.

Your past, I can forgive. It’s your pattern I cannot rock with.

In un tentativo di capire quelli che ormai sono i miei concittadini, domenica mattina mi sveglio alle sette per fare un’ora di passeggiata fino a Buckingham Palace. Nei giardini adiacenti sono già migliaia i mazzi di fiori che si sono accumulati nelle zone di raccolta, a formare ordinate aiuole adornate di biglietti commemorativi. “Non ti scorderemo mai”, “Grazie per i tuoi servigi”, “I nostri pensieri sono con la tua famiglia”. Percorro con lo sguardo questa distesa di plastica e cartoncino che simboleggia così bene le contraddizioni della nostra epoca: con l’inflazione ai massimi storici dagli anni Ottanta, migliaia di mazzi di fiori di Tesco a tre pound e mezzo sono allineati nei loro involucri di plastica per celebrare la morte di un simbolo e la fine di un’era. Una serie di volontari spoglia ordinatamente i fiori dalla plastica, accumulando centinaia di fogli crepitanti in un angolo del prato. Migliaia di persone con gli occhi pieni di lacrime per una famiglia che non conoscono e ciechi alle conseguenze ambientali che il loro gesto di affetto lascia attorno. 

Martedì sera il cielo è lacerato dal rumore degli elicotteri che scortano la salma di Sua Maestà a Buckingham Palace, mentre Re Carlo si imbarca in una serie di viaggi da Glasgow a Belfast dove incontra i Primi Ministri e i Parlamenti locali. Nel frattempo, i social media proliferano di gente che si domanda se è un buon momento per riportare gli artefatti rubati dal British Museum nei Paesi di origine, e persino la BBC manda in onda una ragazzina ventenne che dice che beh, le dispiace che la regina sia morta, ma non è proprio che si senta in lutto per una istituzione che ha fatto il suo tempo. 

Questi dieci giorni di lutto nazionale sono un eco di contrasti: il silenzio del lutto, la voce dello sdegno, la morte di un’icona e quella silenziosa di migliaia di persone che lei non ha mai conosciuto, il rumore degli elicotteri sopra Buckingham Palace e quello degli autobus che portano i lavoratori di Clarence House a casa dopo che hanno ricevuto una notifica di licenziamento durante il servizio di preghiera per la regina per il quale avevano lavorato giorno e notte.

La morte ci ricorda che nessuno è intoccabile, nemmeno i reali. E con la morte di Elisabetta, pilastro di questa istituzione, assisteremo a un periodo in cui la monarchia dovrà convincere i britannici non inglesi di avere ancora un ruolo all’interno del Paese.

Si dice che tempi difficili forgino popoli forti: io osservo questa scena dal patio dell’appartamento che ho appena comprato, convinta che questo lungo inverno iniziato con Brexit e scosso da crisi economiche, ambientali e politiche porterà ad una primavera culturale e sociale anche da questo lato della Manica.

Elisa, Inghilterra

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Elisa, Abu Dhabi

Nata con i piedi nell’Adriatico e cresciuta sotto le Due Torri, una delle mie prime ricerche su Google è stata “come ci si trasferisce negli Stati Uniti”: i risultati mi hanno convinta dell’importanza fondamentale della libertà di movimento in Europa. Ho vissuto in Francia, a Londra, in Macedonia e ora faccio base ad Abu Dhabi. Mi occupo di sostenibilità, insegno yoga, sono ambasciatrice dello slang parigino di banlieue nei quartieri bene di Londra e della cucina vegana senza glutine in giro per il mondo.

1 Comment

  • Io sono sposata con un inglese e lui si sorprende sempre di quanto spazio i programmi tv italiani dedicano alla famiglia reale inglese. Il suo atteggiamento nei confronti dei Windsor è molto distaccato. Crede che la monarchia faccia bene al turismo e che non cambierebbe molto se non ci fosse da un punto di vista politico ma perderebbero un’istituzione che regala entrate per il paese: pragmatismo British . La prima volta che abbiamo parlato di questo gli ho chiesto cosa ne pensasse di Diana e mi rispose che era una brava principessa. Io non sapevo neanche quale fosse veramente il ruolo di una principessa e lui mi disse che faceva molta charity e il popolo l’amava ma che a lui importava relativamente. Mi colpì questa cosa di essere una brava principessa come una brava regina. Per me potrebbe essere superata la monarchia ma non nego che le parate e tutta la macchina di questa istituzione mi sembra affascinante. Noi abbiamo il presidente della repubblica che cerca di tenere insieme il governo, loro hanno la monarchia che èben più divertente anche perché ha poco potere politico, anzi penso zero.

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