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Democrazia, identità e sospensioni: diario della mia COP27

cop27
Written by Elisa, Abu Dhabi

“Riusciresti a coprire il lancio della campagna per la protezione delle rondini prima di partire?” È  cosi che mi ritrovo un venerdì pomeriggio a seguire il fotografo Tim Flach in giro per il suo studio, mentre per una volta non fotografa tigri, ma una modella e attivista che domani camminerà da Hyde Park a Downing Street per consegnare una petizione per la protezione degli uccelli in Inghilterra. La marcia avviene sotto la pioggia, in una Londra finalmente autunnale, che io saluto chiudendo il bagaglio a mano: sono in partenza per l’Egitto, direzione COP27, la ventisettesima conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico.

Siamo in circa trentamila a sciamare su Sharm El Sheikh da tutto il mondo. Da un paio di anni, della COP si parla su tutti i giornali, come del Festival di Cannes e della notte degli Oscar. E un po’ ci si sente effettivamente su un red carpet, quando si entra nei lussuosi hotel dove si tengono i ricevimenti ufficiali e un autista in livrea ti accompagna in golf cart elettrico fino al panel a cui sei invitata. Colazione al Four Seasons con venture capitalists, poi cena al Park Regency dove ti trovi a parlare di barriera corallina con una principessa. In mezzo, lo spazio alienante del Tonino Lamborghini Conference Center, dove le negoziazioni si svolgono in stanze prive di luce naturale, circondate da una folla di padiglioni temporanei brandizzati da quegli Stati, aziende e organizzazioni che possono permettersi le centinaia di migliaia di euro necessarie per avere uno spazio dedicato.

La COP nasce come una conferenza, ma si è evoluta in un festival del clima. E io non sono sicura di come mi sento a riguardo. Ne parlo, con Leo e Greta, i piedi nella sabbia di Sharks Bay a nemmeno un’ora dal mio atterraggio. Con Leo ci sentiamo al telefono da mesi, ed e la prima volta che ci vediamo di persona. Con Greta leghiamo subito, complice la naturalezza dei vent’anni e questo contesto surreale in cui siamo invitati a una serata sulla spiaggia dopo una giornata rinchiusi in un edificio troppo condizionato.

Le COP-friendships sono uno dei regali più belli di questa conferenza annuale. Ritrovo Jose dopo trecentoquarantasei giorni: l’ultima volta aveva dormito con Fatima sul mio divano a Londra, di ritorno da Glasgow, dopo una serata iniziata con la presentazione di un libro e finita con una campagna di sensibilizzazione sul clima a Soho House. Parla a tutti della mia casa in una chiesa, che in America Latina deve sembrare poco meno che una blasfemia. Ritrovo Bruno dall’Argentina, Qiyun da Singapore, Maite dalla Colombia, Sandra che da Londra si e trasferita ad Abu Dhabi. E conosco Alex che ha mollato il marito americano per trasferirsi nell’Amazzonia ecuadoriana, Bella che ha ventitré anni e lancia startups in Ghana, Vanessa che lavora per una multinazionale e vende coppette mestruali in Sud-Est asiatico.

Molta di questa gente e arrivata in Egitto con i suoi soldi. Va da se che chi ce l’ha fatta sono i privilegiati che sono riusciti a raccogliere abbastanza soldi, e in molti faticano a permettersi non solo i prezzi proibitivi del centro conferenze, ma anche quelli inflazionati che i locali impongono in queste due settimane di circo socioeconomico. Mi dice Alex che il loro budget cibo se ne e andato il primo giorno, quando hanno chiesto loro 250 euro per il check in anticipato. “Per fortuna ci invitano spesso ai buffet gratis” mi dice mentre dondola il suo bimbo di otto mesi. 

È tempo di fine settimana, ci dividiamo tra chi va a ballare al Pasha di Naama Bay e chi a fumare la shisha al Farsha, una serie di terrazze e divenenti arroccati su una montagna a strapiombo sul mare che sembra uscito dalle Mille e una notte. Per ventiquattrore siamo di nuovo tutti umani, passiamo da un tavolo all’altro ebbri di stelle e di chai, sotto una luna equatoriale che sorride imperturbabile. In discoteca vedo una solidarietà senza eguali, quando finisce la carta igienica nel bagno femminile e le ragazze cominciano a dividersi i fazzoletti per fare fronte all’emergenza. La domenica scivola in acqua, il tramonto è alle cinque, ci sono completi da ritirare in lavanderia e un’incognita su quando i negoziati finiranno. I confini ricominciano a disegnarsi tra chi domani entrerà alla conferenza e chi parteciperà solo agli eventi di contorno.

Le COP non sono eventi accessibili. Mancano i badge di accesso per migliaia di giovani attivisti che restano relegati agli eventi di contorno. Manca un modo per gli indigeni che non parlano inglese di essere veramente parte della conversazione. Manca cibo sano ed economico. Mancano modi per permettere ai veramente poveri -quelli che vivono con meno di dieci dollari al giorno- di fare sentire la loro voce.

E ancora più evidente: manca la natura, quella che ci sta dando segnali sempre più violenti della sua intolleranza alle nostre abitudini consumistiche e capitalistiche. Siamo in poche decine ad avere il lusso di una mezz’ora libera per sederci nei lenzuoli di prato o nella tenda beduina per mangiare al sole. Eppure la prima volta che ho lasciato la spiaggia a nuoto per trovarmi, dopo dieci metri, sospesa su uno strapiombo di coralli pallidi e pesci arcobaleno, ci ho messo cinque minuti a ritrovare il fiato. Dove ci siamo persi la bellezza? 

Questa disumanizzazione stona terribilmente con il risultato che stiamo cercando di portare a casa, e con gli spazi che si creano fuori dalle negoziazioni grazie alla buona volontà di chi non riesce a ottenere il base di ingresso: meditazioni guidate, pulizie energetiche e canti tribali vedono riunirsi centinaia di attivisti, ma quasi nessuno dei rappresentanti ufficiali che escono a fatica dalla conferenza se non per eventi altrettanto ufficiali. 

È a uno di questi ricevimenti che assaggio per la prima volta della carne prodotta in laboratorio da cellule staminali: se dovesse passare tutti i test, potrebbe diventare un’alternative cruelty free alla carne da supermercato. Il resto delle mie serate è passato invece a chiedere opzioni vegane e ricevere sguardi di compatimento e riso in bianco: le portate sono filetti tagliati minuziosamente della stessa dimensione, salse ricercate, non c’è nulla di quella sobrietà che dovremmo promuovere. Non sono l’unica a guardarsi attorno stranita, contemplando questo teatrino di auto-compiacimento tra pezzi grossi, chiedendomi quante migliaia di morti renderanno inopportuno servire carne a una conferenza sul clima.

Ma a volte l’inopportunità è il solo modo di scuotere le regole. In una conferenza la cui età  media dei negoziatori è ben oltre i cinquanta e ha modi a dir poco formali, cominciano a spuntare negoziatori giovani, che concludono le lunghe sessioni di trattative con coreografie TikTok inter-delegazione. E se siete tra quelli che storcono il naso all’idea che dei delegati ufficiali si lascino andare a comportamenti festosi, vi invito invece a percepirne il potere unificante da un lato, e democratizzante dall’altro.Milioni di persone sono consapevoli dell’urgenza del cambiamento climatico ma non si sentono di poter ambire ai ruoli in cui potrebbero cambiare qualcosa: vedere i giovani che ambiscono a ruoli di potere senza snaturarsi ci prova invece che il cambiamento e possibile, e a portata di mano.

I giorni passano, il ritmo non rallenta, parecchia gente finisce in ospedale per intossicazione alimentare o esaurimento nervoso. Mi trovo un pomeriggio nella tenda beduina con il Direttore di un ufficio delle Nazioni Unite bloccato dal colpo della strega, e prontamente soccorso da un amico startupper che passava di li. Persino John Kerry si è preso dieci minuti di riposo in cui sembra, finalmente, solo un settantottenne che lavora duro. La mia ancora resta lo yoga mattutino, e il viaggio mattutino verso il centro conferenze fatto non sugli autobus elettrici condizionati, ma sui pulmini sgangherati con cui si muovono i lavoratori locali che sfrecciano lungo l’autostrada che collega Sharm da Nord a Sud come schegge impazzite, recuperando e depositando persone senza fermate precise. Questa entropia umana rappresenta il mio radicamento quotidiano, il riscontro con la realtà fuori dalla bolla in cui galleggio ormai da due settimane: una bolla di gente internazionale ed erudita sospesa in una bolla di resort patinati in cui transitano come ombre spaesate le poche centinaia di turisti che si sono trovati qui per caso. Ancora una volta è nella sospensione tra mondi paralleli che ritrovo la mia identità di osservatrice.

Comincio a salutare i primi COP friends che ripartono, gli eventi laterali finiscono e i giovani attivisti cominciano a smarcare i siti turistici del Sinai dalla loro to-do list. Dal lato negoziati invece le serate si passano ormai al centro conferenze, a riprova del fatto che tutto il festival montato attorno ad essi vive ormai di una vita propria. La pressione mediatica e sociale è troppa perché si possa uscirne senza accordi, ma sempre più incontri si svolgono a porte chiuse, e le informazioni circolano come sussurri tra i pochi che sono ancora al centro conferenze il venerdì sera. Osservo questo svuotarsi con un misto di sollievo e delusione all’idea che in molti abbiano già la testa al prossimo evento, quando c’è  ancora cosi tanto in gioco. Le delegazioni spostano i voli a lunedì. 

Sabato mattina ci concediamo il privilegio di restare in albergo e seguire le notizie dal telefono, sotto l’ombrellone. Tra chi è alla conferenza e chi invece è partito per visitare Dahab o Cairo, l’atmosfera è intima, raccolta, sospesa. E invita a ritrovare quella dimensione di coppia fatta di prossimità fisica, di dita intrecciate mentre scorriamo le ultime bozze pubblicate, di silenzi condivisi, di un ultimo bagno col sole che affonda nel Mar Rosso. Poi il nastro si riavvolge, le dita si separano: lui prende un volo per Amsterdam e io un taxi per il centro conferenze. 

È un sole stanco quello che sorge sulla plenaria finale. Per me, è ora di chiudere di nuovo il bagaglio a mano con tutti i suoi completi formali e lasciarlo in custodia all’albergo. Sistemo la kefiah in testa, prendo lo zaino e già mi pregusto una colazione tipica in un qualche ristorantino tra le lamiere e le rocce del deserto. Arrivederci cibo dei resort, acque cristalline, autostrade a cinque corsie da provare ad attraversare a piedi in un moto di ribellione verso l’urbanistica dell’auto. Mi fermo un istante solo a guardare la piscina, di nuovo sospesa tra due mondi paralleli, pronta a lasciarmi alle spalle la danza rituale e patinata delle relazioni internazionali per circa trecentosessantadue giorni. 

Il 17 novembre prossimo, ci rivedremo a Dubai.

Elisa, Inghilterra

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Author

Elisa, Abu Dhabi

Nata con i piedi nell’Adriatico e cresciuta sotto le Due Torri, una delle mie prime ricerche su Google è stata “come ci si trasferisce negli Stati Uniti”: i risultati mi hanno convinta dell’importanza fondamentale della libertà di movimento in Europa. Ho vissuto in Francia, a Londra, in Macedonia e ora faccio base ad Abu Dhabi. Mi occupo di sostenibilità, insegno yoga, sono ambasciatrice dello slang parigino di banlieue nei quartieri bene di Londra e della cucina vegana senza glutine in giro per il mondo.

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