Family&Kids

Il bimbo expat cresce senza una comunità di appartenenza?

Written by Federica Italia

Oggi vorrei affrontare un tema che mi frulla in testa da un po’ e sul quale continuo a riflettere. Vorrei provare a condividere con voi i miei pensieri.

Mi frulla in testa da un momento ben preciso: da quando siamo rientrati in iItalia e mi sono trovata ad affrontare più difficoltà di quelle che temevo con l’adattamento dei miei bimbi alla nostra vita italiana. Vita che era completamente nuova per il piccolo che ha vissuto in Thailandia dall’età di un anno, mentre per il grande costituiva il ritorno ad una realtà dove aveva vissuto fino ai 5 anni e mezzo. Realtà, ad essere onesti, non del tutto consolidata in quanto lui ha vissuto il primo anno in Cina, secondo e terzo in una regione italiana dove non avevamo alcun legame e, solo gli ultimi due, nella stessa casa dove siamo tornati. La quale però, non si trova né nella mia città d’origine, né in quella di mio marito. È, diciamo, l’ambiente dove io e mio marito abbiamo vissuto gli anni fra i 20 e i 30 anni e dove è presente il grosso degli amici dell’età più adulta.

Ora, mentre mi era chiaro che i miei bimbi avrebbero avuto difficoltà ad inserirsi in un ambiente scolastico nuovo, non mi era del tutto chiaro che loro avrebbero affrontato tutto ciò senza un bagaglio che normalmente i bimbi cresciuti nello stesso ambiente hanno. Sto parlando di un bagaglio particolare a cui normalmente non si pensa: quello costituito da tutto ciò che ci fa sentire l’appartenenza ad una comunità. Cerco di spiegarmi meglio attraverso la definizione che ne dà il dizionario:

“Una comunità è l’insieme delle persone che vivono sullo stesso territorio o che hanno origini, tradizioni, religione, idee, interessi comuni”.

In senso stretto, la prima comunità di appartenenza è la famiglia. Un bimbo expat cresce ovviamente all’interno della propria famiglia, ma quella ridotta a padre, madre ed eventuali fratelli. Rinuncia obbligatoriamente però al rapporto quotidiano con la famiglia allargata costituita da nonni, zii e cuginetti.
Ogni genitore expat cerca ovviamente di far vedere bimbi e nipoti il più spesso possibile, compatibilmente con la lontananza del paese di adozione, ma non sarà mai come vivere un rapporto ravvicinato. Un ruolo importante a mio avviso lo gioca l’età al momento dell’espatrio. Il mio bimbo grande aveva un passato vissuto con nonni e zii e per lui è stato bellissimo e naturale ritrovarli in Italia, mentre il piccolo ha incontrato persone viste più attraverso uno schermo che nella realtà ed il loro è un rapporto ancora in gran parte da costruire. Sa ovviamente che sono i suoi nonni, ma non li ha vissuti prima, se non durante le vacanze.

Una seconda comunità importante per il bimbo è quella della scuola, ma anche qui il bimbo expat troverà difficilmente bimbi che condividono la sua origine, cultura e tradizioni. Bene che vada avranno in comune la religione, ma molto spesso non ci sarà nemmeno quella come legante. Questo può costituire anche una grande opportunità come vi ho raccontato nel mio post sulla scuola internazionale dei miei bimbi in Thai, ma non costituirà a tutti gli effetti, per tale mancanze, una comunità secondo la definizione riportata sopra.

Proprio quella religiosa è un’altra delle comunità di riferimento che può avere un bambino. Io e mio marito siamo cattolici, non particolarmente praticanti, ma credenti. Il fatto di aver vissuto 6 anni in Oriente non ci ha permesso per ovvie ragioni di praticare più di tanto e confesso che, il fatto di vivere in luoghi così lontani dal cattolicesimo, ha fatto sì che anche gli insegnamenti trasmessi ai nostri bimbi fossero alquanto scarsi. Probabilmente non a tutti accade perché c’è chi è bravo a trasmettere il proprio credo anche in luoghi dove non è praticato, ma a noi è successo. Se in Italia, quando eravamo piccoli, era scontato sapere la storia di Gesù, le preghiere o concetti quali l’Angelo custode perché si andava a messa alla domenica, si frequentava la parrocchia e se ne parlava a scuola, in Thailandia, senza il supporto di una comunità religiosa di appartenenza, non ho trasmesso ai miei bimbi nemmeno questi semplici concetti. Per assurdo era più facile che gli raccontassi gli usi buddisti piuttosto che quelli cristiani. Io sto parlando di cattolicesimo perché è la mia religione, ma credo sia un discorso applicabile a qualsiasi religione.

Eppure sono convinta che ogni essere umano abbia bisogno di crescere credendo in qualcosa, che sia Dio, Buddha, Maometto o qualsiasi altra entità o la natura stessa. Faccio una piccola digressione per dire che ho vissuto 3 anni in Cina ed ho letto ed ascoltato spesso riflessioni sul fatto che il popolo cinese è un popolo senza un credo e che questo costituirà un grosso problema in futuro per loro. Perché il loro unico fine nella vita è spesso raggiungere il “dio denaro”. Perché si ha forse bisogno di avere uno scopo e, quando questo è fine a sé stessi e non fa parte di un tutto, è fuorviante.

Ho letto qualche tempo fa un post di Bellezza Rara che raccontava di come, quando rivede gli amici della parrocchia, pur avendoli frequentati poco dopo il liceo, è come averli sempre visti e tornare a quei giorni. Scrive:

“Io ho 19 anni, ho frequentato un liceo lontano dal mio quartiere, vado all’università, le mie amicizie sono cambiate. Eppure crescere in una comunità vuol dire anche questo, vuol dire non uscirne mai davvero, vuol dire avere una famiglia – numerosa – in più, e vuol dire anche avere un Natale più caldo. Ho la fortuna di avere incontrato un prete di strada, un prete che ha costruito una casa per tutti, un uomo che è un po’ il mio secondo papà.”

E ancora la nostra Valentina il mese scorso scriveva:

“I figli. Ci piace pensare che stiamo dando una grande opportunità ai nostri figli. E di certo in parte è così. Ma ci son dei giorni, e pure delle notti, in cui mi chiedo: ma davvero è così? Certo la possibilità di crescere bilingui, conoscere realtà diverse, la flessibilità e le esperienze sono un dono. Ma anche l’allontanarli dagli amici e dai legami familiari. Lo stress e le sfide a cui li sottoponiamo.”

Così come mi fece tanto riflettere l’intervista fatta da un expat di lunga data a sua figlia di 17 anni qui sul blog. Pur nella positività nel descrivere la sua vita itinerante, mi avevano colpito in particolare queste sue risposte:

“Cosa pensi della tua vita di bambina expat?
Ho sicuramente fatto tantissime cose, ma mi è mancato un vero legame di socializzazione con gli altri che si può creare solo rimanendo a lungo in un posto. Magari tra qualche anno l’apprezzerò di più, prima devo digerirlo.”

Ed ancora:

Il tuo futuro dove lo vedi?
In America. Lo vedo partendo come base da qui e poi muovermi ma avendo un posto in cui  tornare: vorrei un posto al quale aggrapparmi, un posto familiare dove sentirmi a casa, cosa che mi è mancata.”

In conclusione, forse espatriare è un bene per i figli quando il paese d’adozione è solo uno e quindi i bimbi crescono con il senso di appartenenza a quella comunità mentre cambiare luogo più volte impedisce loro di crearsene una? Forse meglio espatriare quando i bimbi sono più grandi e hanno già questo bagaglio sicuro da portarsi dietro? È pure vero che più sono grandi e più è difficile lasciare tutto… Insomma questi sono gli interrogativi che mi frullano in testa da quando sono tornata ed ho avuto le mie difficoltà da affrontare.
Se non vi bastasse come spunto di riflessione, vi lascio con alcune frasi che ho estrapolato da un testo che, pur parlando nello specifico delle comunità a cui vengono affidati i bimbi che hanno un’esperienza famigliare difficile alle spalle, tratta il senso di comunità in generale. Le frasi  che alimentano le mie riflessioni sono le seguenti:

“Produrre appartenenza è lo scopo della comunità.[…] La persona si compie nell’appartenenza e solo nell’appartenenza può raggiungere ed esercitare poi l’autonomia. Ognuno ha bisogno di essere sì sé stesso, ma di poter abitare un noi.”

Il bimbo expat ha un noi ben definito? Ha come gli altri bimbi questa autonomia e sicurezza che nasce prima dallo sentirsi parte di una comunità?
Sarò grata a chiunque voglia lasciarmi il suo pensiero e la sua esperienza.

Federica, Italia

Potete scaricare il testo “Minori. Luoghi comuni” da cui ho estrapolato alcune frasi qui.

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Author

Federica Italia

6 anni vissuti fra Cina e Thailandia. Un figlio nato a Shanghai e uno in Italia. Con 11 traslochi all'attivo mi sembra di aver vissuto più vite. Guardo il mondo con occhi curiosi, di solito dietro all’obiettivo della mia Canon. Adoro leggere e scrivere sui miei blog: Mamma in Oriente sulla Thailandia e My Travel Planner, il mio nuovo progetto dedicato ai viaggi!

3 Comments

  • Cara Federica, io sono d’accordo ed é uno dei miei crucci da mamma all’estero. Per me bisogna poter contare su radici salde per potersi allontanare.

  • E’ un argomento molto interessante, e ti lascio i miei two cents. Io sono stata una “bimba expat” solo per un anno di asilo che ho fatto in America e poi sono tornata in Italia dove sono stata fino all’universita’. Non so se quell’anno all’estero in tenera eta’ mi abbia condizionato, ma io ho sempre voluto andarmene dall’Italia. Consideravo la famiglia allargata, la comunita’ di riferimento, come popolate di gente chiuse di mente e poco interessanti. Ho sempre avuto voglia di conoscere persone di culture, religioni e lingue diverse e non fermarmi nel paesino brianzolo dove il 40% vota lega. I miei genitori avrebbero avuto la possibilita’ di vivere all’estero per periodi piu’ lunghi e non l’hanno fatto proprio per il mio bene. Crescendo, gli ho sempre rinfacciato la cosa: potevate crescermi a New York, Rio e Singapore, e mi avete costretta nella sfigatissima scuola di una provincia nebbiosa e non interessante? Detto cio’, non so se davvero sarei stata piu’ felice come figlia-di-expat, o se questo vale per tutti i bambini.

    Per sintetizzare:
    Ho un amico che e’ figlio di una diplomatica e una volta mi ha detto “Sai, io non ho amici d’infanzia perche’ ci spostavamo sempre”
    E io ho risposto “Io manco, perche’ mo quelli che stavano con me alle elementari mettono su Facebook le foto di Salvini”
    La vita e’ difficile per tutti.

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