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Vivere all’estero: una brasiliana in Italia

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Written by Guest

Vivere all’estero.  3 semplici parole che raccolgono tanto.  3 semplici parole che raccontano tante storie diverse. Per me, vivere all’estero ha sempre saputo di fascino. Nonostante sia cresciuta in una metropoli, nella parte bella di questa metropoli… sognavo l’estero.

Perché? Chi lo sa… Spesso incolpiamo famiglia per cose fatte (o non fatte), ma non c’entra niente in questo caso, perché mia sorella, almeno fino a diventare grande, non lo ha mai desiderato.

Io invece sognavo l’estero. Prima mi immaginavo in America, probabile perché la mia infanzia e adolescenza siano state certamente influenzate da telefilm e libri vari di origini americane. Mi vedevo manager a Los Angeles, poi passeggiando a New York.

Sempre durante l’adolescenza venne fuori una specie di associazione finlandese che metteva insieme nel mondo adolescenti che volevano scambiare corrispondenza gli uni con gli altri. Si compilava una specie di modulo, lo si inviava via posta (eh no, non c’era Internet) con dei soldi – pochissimi, un tot per indirizzo – per poi, nel giro di qualche settimana (oggi sembrerebbe un’eternità) ricevere una busta con dentro dei piccoli foglietti, ognuno dei quali con nome e indirizzo di un potenziale nuovo “amico di penna” (penpal), la fantasia faceva il resto perché c’era solo il nome, indirizzo, paese e età. Ci si scriveva e, magari, nasceva un’amicizia a distanza.

Ossia, il mio sguardo era davvero al di fuori del mio paese – che non è mica brutto, anzi, meta da sogno per molte persone.

A 17 anni inizio a lavorare in una gioielleria dentro un hotel 5 stelle. Non poteva essere altrimenti, perché oltre all’estero, sono sempre stata attratta da hotel e aeroporti. 

To make a long story short, come si dice in inglese, a 18 anni ero già in Italia e a 19 mi sono sposata (io che non pensavo nemmeno di sposarmi e, caso l’avessi fatto, non prima dei 30…).

Mia figlia ha fatto delle esperienze all’estero con l’università, e ha sempre detto che nessuna è stata un’esperienza né facile né semplice. Perché in effetti non lo è.

Ho sempre detto ai miei figli che quando un’azienda paga di più perché si vada all’estero, non sta regalando niente, perché ti sta effettivamente pagando il disagio di lasciare il tuo ambiente, famiglia, amici, palestra, oltre che farti cambiare cibo, meteo e cultura.

Una volta ho sentito da una persona che in una certa città americana era difficilissimo inserirsi, si rimaneva sempre uno straniero.

Ovviamente c’è caso e caso, ma credo che in parte sia vero. Rimaniamo sempre stranieri, perché è la verità. Sono diventata cittadina italiana automaticamente, perché quando mi sono sposata era così, e non ricordo affatto di esserminemmeno preoccupata di questo. Ma mi sono resa conto che sono comunque una extra comunitaria di origini, anche se non lo sento talmente mi sono ambientata e fusa con la cultura italiana, avendo ormai vissuto molto di più qui che in Brasile.

Credo che tutti noi che abbiamo cambiato paese abbiamo in comune il vissuto di momenti di sconforto, dove, inevitabilmente, si paragonava in negativo il paese attuale a quello di origine. Momenti in cui ci siamo sentiti incompresi, guardati come diversi e così ci siamo sentiti discriminati. Ma sono momenti di transizione, inevitabili, che servono però anche per superare ostacoli e difficoltà che, diciamocelo, nella vita si incontrano comunque, magari in altre situazioni e con altri nomi.

Forse noi, expats, che decidiamo di andare fuori, ce l’abbiamo nel nostro DNA questa spinta al nuovo, allo sconosciuto, chi lo sa? Cosa ci muove verso queste difficoltà evidenti, che ci tolgono dalla nostra zona di conforto?

Se parlo per me, anche se è una risposta difficile perché immensa e carica di significati, penso che il movente si spieghi con la meraviglia del nuovo, con lo stupore di conoscere mondi diversi – cosa che allarga in maniera unica la nostra mente e cuore. Sfida unica e irresistibile a chi ha l’espatriare nel sangue.

Noi tutti siamo unici e il segreto della felicità è riuscire a espletare quello che siamo dentro. E l’espatriare a volte aiuta in questo, non semplice, processo. Spesso ci sentiamo inadeguati, sbagliati, con quella eterna sensazione che ci manca qualcosa. E, come è successo a me, ad un certo punto ti meravigli nell’identificarti con il paese che hai scelto di vivere, quando, per esempio, gioisci con le partite di questa nazionale (anche se lo fai anche con quella del tuo paese di origine), quando apprezzi le cose locali e te le senti ormai anche tue.

È bellissimo.

Espatriare non è da tutti, non è per tutti e non c’è niente di sbagliato in questo. Non siamo tutti uguali.

Ma per chi espatria, le sensazioni che poi riesci a liberare sono uniche e spiegano e giustificano tutte le difficoltà affrontate. Se parlo per me, sensazioni che vanno dall’amare cantautori della nuova patria, a cucinare bene i piatti locali, a capire tutti i dialetti, a essere confusa con una italiana con accento ma magari solo di una regione diversa, ma anche, e forse principalmente, crescere figli con vedute ampie, con due lingue e culture incorporate nel cuore… ed è bellissimo.

Ana Maria, Italia

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